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La Cina e Trump

Mentre il post-Sanremo impazza, forse è meglio guardare a quel che succede nel fintamente lontano Pacifico. Donald Trump neopresidente e un paio di suoi neosegretari di dipartimento hanno voluto onestamente tener fede alle loro promesse elettorali continuando ad attaccare Pechino, specialmente mettendo apertamente in dubbio la politica dell’“Unica Cina”. Secondo questo indirizzo politico, Pechino è il solo rappresentante legale per tutta la Cina e soprattutto rispetto a Taiwan, considerata una provincia secessionista. Per capire meglio cosa significhi questa politica, immaginiamo che Franceschiello Borbone, re delle Due Sicilie, fosse riuscito a scappare in Corsica, insediando con successo un governo in esilio, mantenuto in piedi sino a oggi. Immaginiamo pure che Putin, dopo aver ricevuto una telefonata ufficiale dal capo del regno ribelle, cominci a dire che di Italia non ce n’è una, ma molte, e che Roma non sia un interlocutore desiderabile. Credo che persino il tranquillo governo odierno italiano eviterebbe di far finta di nulla e che troverebbe il modo di far arrivare un messaggio piuttosto chiaro. È quello che la Cina ha compiuto con una formale, quanto poco pubblicizzata, protesta diplomatica: miracolo! C’è stata una cordialissima telefonata fra Trump e Xi Jinping, dove Trump si è inteso a meraviglia con il suo interlocutore cinese e ha riconosciuto la validità della politica dell’“Unica Cina”.

Dovendo trattare su politiche monetarie e tariffarie, evidentemente il presidente Usa ha capito che non avrebbe nessuna leva utile, insistendo su un tema considerato dalla controparte non negoziabile (e Taiwan, dal canto suo, non avrebbe apprezzato di essere usata come una pedina di scambio). I commentatori che pensano che abbia ottenuto qualcosa in cambio del ritorno allo status quo tradizionale peccano d’ottimismo. Questo non significa che necessariamente l’amministrazione Usa abbia cambiato idea sulla questione o sull’insieme dei rapporti con Pechino e nemmeno che sia una zhilaohu (tigre di carta), vuol dire solo che tra grandi potenze bisogna trattarsi con reciproco rispetto se si vogliono fare affari. Peraltro, il ritiro dal Tpp è stato sinora un “travailler pour le roi de Prusse”, cioè un favore totalmente gratuito alle politiche e all’influenza cinese nell’area. Per ora si è trattato di una presa di contatto piuttosto ruvida: non sarà l’ultima e le medie potenze europee, dalla Germania in giù, farebbero bene a intensificare lo scambio d’informazioni e a usare con efficacia l’Eeas (il Servizio diplomatico dell’Unione europea), prima di ritrovarsi vasi di coccio al prossimo confronto sinoamericano.