Barone Rosso

Di Alessandro Politi

Libia, stare al tavolo senza bombardare

E mentre il Siraq continua la sua via crucis, torna alla pubblica attenzione l’evergreen della Libia con nuove analisi, nuovi negoziati e… nuove proposte d’intervento. Il punto centrale visibile è l’aumento, quasi un raddoppio, dei combattenti di al-Dawla (Isis) in Cirenaica, intorno ai 6mila jihadisti e, puntualmente, viene fuori l’impellente necessità di fare qualcosa per rassicurare le pubbliche opinioni.
Diciamolo anche subito, a passi felpati si fa strada l’idea che l’intervento sia quasi inevitabile, tanto nelle cancellerie guerrafondaie quanto in quelle dubbiose. Un buon motivo per chiedersi se, politica armi e conti alla mano, convenga. Il ventilato eroico evento nel “bel suol d’amore” può essere fornito in tre comodi format: bombardamento aereo da parte dei soliti noti, un’operazione che lascia mano libera agli egiziani, oppure benedicendo l’autentica coalizione arabo-mussulmana messa in piedi il mese scorso. In questo modo si potrà dire di affrontare la minaccia jihadista e si potranno snocciolare le inevitabili cifre del successo tecno-aerospaziale.
Peccato che la visione a tunnel, tipica di troppi decisori e analisti, non riconosca che il problema sta in un sistema già incardinato. L’ansia di proattività non sembra tener conto di troppi danni collaterali. Primo, il costituendo di unità nazionale va a ramengo e con esso la stabilità del Paese per molti anni ancora. Secondo, salta la Tunisia che è già sotto un’enorme pressione e che i miopi governi occidentali stanno lasciando sola come la Repubblica di Weimar. Terzo, il Sinai non verrà recuperato alla sovranità egiziana per ancor più tempo. Quarto, l’Algeria, ammesso che i jihadisti rifluiscano in disordine, potrà beneficiare della sua quota d’instabilità insieme a tutta la fascia saheliana, aggravata dai morsi della crisi petrolifera. Sarebbe seccante scoprire che il caos della Libia si ripercuota brutalmente ad Algeri, spazzando la stabilità esattamente come è successo nel Mali. Non parliamo poi delle ondate di profughi, facilitate da mafie che dei muri se ne infischiano (si veda la frontiera con il Messico, dove si pensava di sparare a vista). Quindi le bombe saranno un prezioso elemento di propaganda a favore del governatore tripolitano del califfato, facilitando l’espansione delle bandiere nere, e non la loro sconfitta.
E allora? Primo, aiutare economicamente la Tunisia, il solo serio avamposto di democrazia e fulcro logistico di manovra relativamente permissivo tra il Nilo e la Mejerda. Poi, avere il coraggio della politica, lavorando con pazienza al governo d’unità nazionale, l’unico in grado di combattere con le armi e la propaganda i jihadisti, specie se si includono con prudenza i vecchi gheddafiani. Infine, aiutare davvero l’Egitto a chiudere la piaga purulenta del Sinai. Insomma stare al tavolo per non bombardare a cavolo.