L’indotto economico della cyber-security
Secondo recenti studi, uno degli effetti positivi connesso ai rischi provenienti dal dominio cyber potrebbe essere la creazione di posti di lavoro. Se da un lato, quindi, sono palesi le vulnerabilità dei sistemi informatici, dall’altro aumenta la consapevolezza che tali rischi possano essere mitigati solo attraverso delle specializzazioni che vanno ben al di là della sola capacità informatica. Ad esempio, stando ai dati forniti da Burning Glass Technologies, le posizioni lavorative aperte nella sicurezza informatica Usa aumentano a un ritmo tre volte superiore a quello del segmento It. Secondo Burning Glass Technologies, i settori più “caldi” per la cyber-security sono: servizi professionali (37%), finanza (13%) e manifattura-difesa (12%). Questi dati evidenziano soprattutto la diffusione della consapevolezza del rischio e della necessità di rispondere alle minacce cyber (poliedriche) attraverso un approccio multidisciplinare che, quindi, non valorizzi solo l’aspetto tecnico. Tuttavia, questo dato si scontra con un’altra realtà che interessa anche il nostro Pae- se: la bassa propensione all’investimento delle imprese (soprattutto piccole e medie) su tutto ciò che coinvolge il comparto cyber-security.
Secondo uno studio condotto da Nomisma (e ripreso dai nostri servizi di intelligence), in Italia solo l’1% delle piccole e medie imprese investe in cyber-security, pur essendo proprio queste esposte maggiormente allo spionaggio informatico e al furto di know how. Quest’aspetto importante, degno di nota dell’agenda dei policy-maker, potrebbe essere risolto anche attraverso una “defiscalizzazione” ad hoc delle spese sostenute dalle imprese che decidessero di investire parte dei propri ricavi nella cyber-security aziendale, mettendo al sicuro anche un asset strategico nazionale: il know how italiano.