Il Barone rosso

Di Eric Idle

Pene di morte giudiziarie ed extragiudiziarie

Francamente, il dibattito sul duello Clinton-Trump non serve a un beneamato nulla, se visto in termini calcistici e il Lei per chi tifa è la vacua domanda di chi ha rinunciato a capire e far capire la realtà del mondo. Sotto il diluvio mediatico emergono invece due notizie che interrogano in modo diretto la politica vera e le persone semplici. Su questioni di vita e di morte. Durante la giornata mondiale contro la pena di morte, i vescovi cattolici del Texas, lo Stato con più esecuzioni capitali recenti negli Stati Uniti (più del 30%) e con alcune delle più oscene prigioni private al mondo, hanno diffuso un proclama contro questa pena che, nei Paesi che ascoltano la lezione di Cesare Beccaria, è obsoleta da secoli. Dichiarando la giornata un’espressione a favore della protezione della vita, i vescovi constatano che: la pena di morte colpisce i poveri, le minoranze e gli squilibrati (ma quanti boss mafiosi hanno visto il patibolo?); i costi di un’esecuzione sono tripli rispetto all’ergastolo; la pena capitale non influisce sui tassi di criminalità (come si sa dal 1764, cioè da un quarto di millennio); la morte del criminale non consola le vittime dei familiari, non permette alcuna riabilitazione (è utile rivedere il film italiano Cesare deve morire), influenza negativamente l’educazione dei bambini ed esclude compassione e redenzione dalle culture che la praticano. Insomma, perché la morte per iniezione è più civilizzata dello sgozzamento alla Daesh? Quali valori di libertà, eguaglianza, fraternità e democrazia difende?

Dall’altro capo dell’oceano Pacifico, invece, si profila una chiesa silenziosa e incerta davanti al massacro extragiudiziale attivamente promosso dal neopresidente Rodrigo Duterte con il tristo primato di 3.600 spacciatori o piccoli criminali uccisi. È difficile non pensare a una Notte dei cristalli o a un pogrom prolungati ed è pericoloso, oltre che impolitico, immaginare che alcune vite abbiano meno valore delle altre. I sondaggi, che mostrano un 76% a favore del presidente massacratore, e un 84% a favore della guerra alla droga (anche se con una maggioranza che prova ripugnanza all’omicidio di massa), rivelano piuttosto a che livello è sceso lo stato di diritto in una democrazia occidentale e quindi la credibilità di uno Stato che elimina i piccoli pesci, ma permette all’impunità, alla violenza e alla contiguità mafiosa d’installarsi nel cuore delle forze dell’ordine. Non ci vuole una scienza infusa per capire che la strada filippina è molto simile a quella messicana, i cui risultati in termini di lotta alla mafia sono, dopo dieci anni, a dir poco deludenti. Se la democrazia vuole vivere deve evitare i silenzi complici sui killing fields distanti per circoscrivere e debellare il contagio di una vecchia barbarie con nuovo mascara.