Il Barone Rosso

Di Eric Idle

Si scrive Corea del Nord, si legge Pacifico

Le discussioni sulla Corea del Nord somigliano in modo preoccupante a quelle intorno alla Bosnia Erzegovina dopo l’assassinio dell’arciduca Ferdinando: tutti a guardare il dito e non la luna. Quello che contava in quei convulsi giorni di luglio prima della guerra 1914-1918 non era quanto la Serbia fosse disposta a concedere all’Austria-Ungheria, ma quanto le paure britanniche per la sicurezza dell’impero sotto la pressione di Mosca spingessero a un paradossale avvicinamento alla Russia, mollando la politica di buon vicinato con la Germania, e quanto la Germania e la Gran Bretagna fossero strutturalmente in rotta di collisione per contrastanti interessi commerciali, finanziari ed economici. Le grandi guerre sono mosse da molle potenti e non causate da minuscoli pretesti. Francamente, l’arsenale nucleare nordcoreano ha di gran lunga meno importanza di quello pakistano e soprattutto le portate dei suoi missili sono frutto più di proiezioni del caso peggiore che non di effettive capacità. Ammesso e non concesso che sia sotto tiro, Guam non è il cuore degli Stati Uniti, e una dozzina di testate ancora non miniaturizzabili ha poco peso contro 5mila in perfetta efficienza. Insomma, la dissuasione dal debole al forte funziona in un solo senso: il forte può riflettere prima di rischiare, ma il debole non può usare l’arma atomica, pena il suo annientamento. I francesi sono i primi ad aver usato questo sistema, però alle loro spalle c’era de facto l’arsenale centrale Usa. I nordcoreani sono invece disperatamente soli. L’idea che l’ipotetica minaccia di una testata nordcoreana contro un lembo del territorio statunitense sia “intollerabile” non regge un secondo con la dura realtà che per decenni tutti gli Stati Uniti erano sotto minaccia costante di 10mila testate sovietiche e che si sono spesi miliardi per difese antimissile contro minacce appunto limitate. Il nodo della questione è invece molto semplice: gli Stati Uniti hanno considerato il Pacifico come un loro dominio privilegiato dall’inizio del secolo scorso e, quando sono stati sfidati, non hanno esitato a schiantare l’avversario (il Giappone) e non esiteranno, a rigor di logica, a farlo con la Cina. Pechino, nonostante le sue felpate e sagge prudenze, sta obiettivamente corrodendo il predominio americano: ha potenziato la sua marina, ha creato una catena di punti d’appoggio dal mar Giallo al Golfo persico e al mar Rosso, ha penetrato economicamente l’America centrale e meridionale, sta costituendo un sistema intermodale logistico ed economico complementare ma anche alternativo (Nuova via della seta), sta creando le sue istituzioni e reti internazionali in concorrenza con quelle di Bretton Woods (mentre Trump batte in breccia la Trans-pacific partnership ritirandosi dagli accordi) e continua a essere creditrice di Washington. Facciamo finta che Trump sia un sagace e controllato conservatore e che Xi Jinping non sia un duro apparatchik ultracomunista e arcinazionalista, quanta intelligenza, moderazione e visione politica ci vorranno per evitare una guerra mondiale che non aspetta altro se non un segnale?