Impronte digitali

Di Maurizio Mensi

Il riconoscimento facciale nello Xinjiang cinese

Ancora (e sempre più) alla ribalta i sistemi di riconoscimento facciale, che da strumento contro la criminalità pare ormai essere diventati funzionali all’esercizio di poteri di sorveglianza globale. Secondo quanto riportato da Bloomberg, la regione cinese dello Xinjiang, frontiera ovest del Paese al confine con l’Afghanistan e il Pakistan, i cui villaggi ospitano circa dieci milioni di musulmani di etnia Uigura, è diventata una sorta di laboratorio in cui si applicano tecnologie per il controllo di ampie fasce di popolazione.

Su impulso del presidente Xi Jinping, intenzionato a liberarsi dei terroristi islamici autori di attacchi efferati nel 2013 e 2014, compresi quelli alle stazioni ferroviarie di Guangzhou e Kunming, la regione è diventata uno dei luoghi più diffusamente controllati al mondo, con una presenza capillare di forze di polizia e un sistema sperimentale che invia un segnale di allarme se le persone si allontanano per più di 300 metri dalle cosiddette “zone sicure”, che comprendono le abitazioni e i luoghi di lavoro. In effetti, in tutta la regione sono presenti numerosi posti di blocco, stazioni di polizia e telecamere di sicurezza. Tutti devono sottoporsi a scansione facciale prima di entrare al mercato per fare la spesa, di fare il pieno di carburante o prendere una corriera. Il sistema di sorveglianza ha iniziato a essere testato all’inizio dello scorso anno e riguarda soprattutto la parte meridionale della regione ove si trova Kashgar, importante nodo logistico per gli scambi commerciali EuropaAsia, parte integrante della Belt and road initiative.

Il riconoscimento facciale è ormai strumento essenziale del programma di sorveglianza nazionale a cui il governo due anni fa ha dato impulso, chiamato “Xue Liang” (potere di controllo globale), che pone la Cina all’avanguardia dal punto di vista tecnologico. È gestito da China Electronics Technology Group, società statale del settore della difesa che ha sfruttato le proprie competenze nel settore spaziale e dei sistemi radar per dedicarsi alla sicurezza interna, sviluppando un software per raccogliere dati su attività professionali, hobby, abitudini e comportamenti dei cittadini, con l’obiettivo di prevedere crimini prima che siano commessi. La Cina, secondo Jon Cropley, analista di IHS Markit, rappresenta ormai il 46% del mercato globale della sorveglianza video e tre quarti dei servizi di deep learning per l’analisi dei dati. Nel 2015, ha stanziato per la sicurezza interna la somma record di 146 miliardi di dollari, più di quanto abbia fatto per la difesa militare.

D’altronde, il controllo sulla regione dello Xinjiang, più vicina a Baghdad che a Pechino, è una preoccupazione del potere centrale cinese sin dal tempo degli imperatori e l’attuale governo accusa i separatisti che non riconoscono la sovranità cinese di fomentare rivolte e terrorismo. Di qui gli sforzi per elevare il livello della risposta tecnologica per salvaguardare – così si è espresso l’anno scorso il presidente cinese – la sicurezza nazionale e la stabilità sociale. Questo evidentemente non fa che alimentare le preoccupazioni di Stati Uniti e Unione europea sul rispetto della libertà di circolazione e dei diritti delle minoranze etniche anche perché – come rileva Jim Harper del Competitive enterprise institute – un tale sistema di controllo generalizzato, che peraltro è assai poco costoso, ha l’effetto di comprimere i diritti e condizionare la libertà d’azione dei cittadini, perché chi sa di essere costantemente controllato non è libero.

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