Donne e risoluzione dei conflitti
Esiste un punto di vista di genere nella risoluzione dei conflitti? Sì! Esiste nella dottrina e nella pratica. Un bell’esempio lo si può trovare nel docufilm del 2008 Pray the devil back to hell, narrato da Leymah Gbowee, attivista pacifista liberiana durante la guerra civile (1999-2003), avvocatessa per i diritti umani e, nel 2011, premio Nobel per la Pace, che riuscì a organizzare una mobilitazione femminile di massa con donne musulmane e cristiane unite in una preghiera corale di pace.
Dopo le manifestazioni – rimaste un’icona dell’impegno femminile nel peace building – e sulla scia della forza non solo simbolica delle “donne in bianco”, la Gbowee arrivò ai tavoli delle trattative di pace che misero fine alla guerra civile che aveva dilaniato la Liberia per quattro anni. E di esempi concreti di impegno femminile sulla strada della pacificazione ne potremmo portare tanti altri. E non è un caso che la campagna internazionale (anzi globale) Nobel peace prize for African women si concluse con il conferimento, nel 2011, del Nobel per la Pace non solo alla Gbowee, ma anche alla presidente della Liberia Ellen Johnson-Sirleaf, e all’attivista pacifista yemenita Tawakkul Karman. Tre espressioni diverse della stessa voglia di cambiamento e del ruolo decisivo delle donne.
Sotto il profilo dottrinario non mancano le codificazioni del ruolo svolto dalle donne nella risoluzione dei conflitti. A ragione si parla di Nato gender perspective, e si considera come punto di partenza la Risoluzione n. 1325/2000 “Donne, pace e sicurezza”, una svolta concettuale che introduce la “prospettiva di genere” e formula il “gender mainstreaming”, inteso e declinato come assunzione di un punto di vista di genere (maschile e femminile) attraverso il quale esaminare ogni situazione e prendere le relative decisioni, nella consapevolezza che le crisi e i conflitti armati hanno un diverso impatto sui generi e una particolare ricaduta sulle donne e sulle bambine.
È da queste premesse teoriche che si avvia il percorso segnato dall’inserimento e dalla sottolineatura del ruolo femminile nei processi di peace keeping e peace building, nonché il nodo ormai indissolubile e di fondo tra parità di genere e sicurezza internazionale. Si è passati, insomma, da una storica sottovalutazione delle donne nella prevenzione e nella risoluzione dei conflitti, nel mantenimento e nella costruzione della pace, a una centralità femminile nei negoziati di pace, nella ricostruzione post-conflitto e nella “percezione” sociale e politica delle donne come fattore di stabilità, con il conseguente riconoscimento dell’importanza della parità di genere (formale e sostanziale) e la piena partecipazione delle donne come agenti attivi di pace e sicurezza. La questione così posta produce un forte impatto sul diritto internazionale umanitario e sull’emancipazione femminile. Ma gli effetti non si fermano qui, e la prospettiva di genere viene integrata al livello strategico, tattico e operativo, e in tutte le fasi di attività (pianificazione, esecuzione e valutazione delle operazioni), diventando un punto di forza delle operazione militari nelle missioni di pace e di sicurezza umana.
L’applicazione uniforme delle direttive sulla materia e sul tema dell’integrazione della dimensione e della prospettiva di genere stanno diventando “di routine” nelle missioni internazionali, identificando la differenza nei bisogni, nelle risposte, nelle priorità, nelle ricadute di ogni decisione e di ogni scelta. La prospettiva di genere non è insomma “una questione di donne”, né di uguaglianza, ma si determina come chiave interpretativa e di approccio, nel segno della valorizzazione delle differenze. In quest’ottica, la prospettiva di genere diventa parte integrante di e in ogni scelta: politica, economica, militare, organizzativa, mentre il “gender point of view” non è un focus sulle donne, ma il sacrosanto riconoscimento della centralità attribuita ai diritti umani. E da questa centralità, non si può e non si deve prescindere.