L’Alleanza Atlantica si risveglia al vertice in Galles

Di Roberto Menotti

La formula usata in molte dichiarazioni dei leader riuniti al summit NATO del Galles è che l’Alleanza ha risposto ad una “wake up call”. Quasi che i paesi membri si fossero svegliati da un sonno fatto di spese declinanti per la difesa e l’illusione di potersi concentrare solo sulle proprie difficoltà interne. Se è così, si è certo trattato di un risveglio assai brusco.

In realtà, era chiaro da tempo che la presunta o auspicata partnership con la Russia si stava sfaldando per mancanza di fiducia reciproca, perfino prima della grave crisi ucraina. Semmai, il dato che spingeva comunque (e spinge tuttora) a coltivare un rapporto pragmatico con Mosca è quello dell’interdipendenza energetica (nel caso di molti paesi europei) e di una possibile cooperazione strategica su singoli dossier (nel caso degli Stati Uniti). Su questo sfondo ambiguo, il vero paradosso della situazione che si è creata sta nell’esito – si spera reversibile – che nessuno avrebbe desiderato: Kiev chiede ora a gran voce di essere aiutata e protetta dalla NATO, mentre fino a pochi mesi fa l’unico suo obiettivo – come anche degli europei – era di stringere rapporti economici più stretti; i paesi “orientali” dell’Alleanza intanto ottengono ora le più esplicite garanzie di presenza permanente degli alleati che finora si erano ritenute (giustamente) non necessarie e provocatorie verso Mosca. La scommessa di Putin ad oggi sembra persa (come la sua influenza su Kiev), ma nessuno sembra aver vinto la partita; insomma, un gioco a somma perfino minore di zero.
D’altra parte, ci sono anche altri interessi comuni a Russia e Occidente, a cominciare dalla gravissima e multiforme minaccia dell’estremismo islamista, che potrebbe in futuro riportare tutti a più miti consigli. Anche per questa ragione, una forma di accomodamento con la Federazione Russa è ancora possibile, sebbene la tregua sul terreno ucraino non sembri purtroppo poter reggere nelle condizioni attuali.

La minaccia posta dallo “Stato Islamico” in Iraq e Siria (e dalle sue varie ramificazioni) rientra, in effetti, in una categoria molto diversa dalla sfida (per quanto seria) all’ordine territoriale europeo posta da Mosca. Come è infatti emerso già a Newport-Cardiff, si tratta di uno scontro ad ampio spettro e in continua trasformazione, con importanti implicazioni anche per la sicurezza interna dei paesi-membri. L’Occidente – America in testa – sa bene di aver commesso vari errori nella grande regione mediorientale, passando recentemente da un eccesso di interventismo a un atteggiamento troppo passivo. E deve prendere atto che si sta verificando un cambiamento profondo degli allineamenti e delle alleanze – ufficiali e sottotraccia. In questo caso, non siamo di fronte a un brusco risveglio ma piuttosto al superamento della psicosi dell’11 settembre 2001, che ha portato prima allo shock, poi a una lunga reazione militare (soprattutto da parte dell’America di G.W. Bush) poco focalizzata, e infine a un senso di impotenza di fronte all’escalation di violenza interna al mondo arabo-islamico (complicata dalla sorpresa per le rivolte del 2011).
E’ certamente opportuno che la NATO abbia ora avviato un nuovo dibattito serrato su come affrontare nuovi rischi e minacce per non farsi cogliere nuovamente di sorpresa. Sarà altrettanto essenziale ricordare le lezioni del passato, scegliendo con la massima cura partner e alleati, come anche la tempistica di ogni eventuale intervento – si può errare per eccesso di zelo come per scarsa prontezza.

La più potente alleanza della storia si è risvegliata; vedremo ora se saprà rimettersi in buona forma e riacquistare piena credibilità, con equilibrio nel prendere decisioni comuni e fermezza nel portarle alle logiche conseguenze.

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