Non c’è alcun dubbio, il tema scottante di questo finale d’estate è la crisi nordcoreana. L’apparente follia di Kim Jong-un (che folle non è, diciamolo subito), l’annunciata reazione muscolare di Donald Trump e i conseguenti allarmi di un’apocalisse nucleare stanno dando da fare agli analisti di tutto il mondo.
Il timore è fondato, per carità, ma l’allarmismo eccessivo rischia di annebbiare la vista, facendo perdere opportunità per una migliore comprensione della situazione. Il dittatore nordcoreano non è disposto a rinunciare al nucleare, e questo bisogna che ce lo mettiamo in testa, noi occidentali. Non lo è non perché sia un imprevedibile folle, ma perché ha compiuto la scelta strategica e razionale – tutta prevedibile – di proseguire la politica paterna, legando lo sviluppo economico del Paese al potenziamento delle capacità nucleari. Si chiama linea del byungjin (“doppio binario” per chi non masticasse il coreano) ed è stata varata dal giovane leader pochi mesi dopo la sua incoronazione. Doppio binario vuol dire ritenere che la stabilità e la prosperità del Paese dipendano da due elementi inscindibili: un sistema economico efficiente e un arsenale atomico moderno. Se a ciò si aggiunge la percezione di minaccia alla propria sicurezza, in parte comprensibile considerando che il Paese è per metà circondato da avversari, si potrebbe più facilmente comprendere perché Kim non sia incline a rinunciare all’unico programma che è in grado, tra l’altro, di garantirgli il supporto dell’establishment burocratico-militare da cui, per origine e formazione, sarebbe altrimenti escluso. Alimentare il tutto con una narrativa esasperata serve al dittatore per consolidare l’immagine del leader ed evitare spazi di dissidenza. Ma guai a non andare oltre le colorite dichiarazioni.
D’altra parte, anche guardando il lato Usa, i primi proclami trumpisti sembravano presagire un imminente scontro. Eppure, nella pratica è emersa una maggiore cautela da parte dell’amministrazione statunitense, che ora non sembra più intenzionata a risolverla con la forza. Certo, un po’ di tradizionale contenimento e una buona dose di misure restrittive in pieno stile Onu sono d’obbligo, ma il passo verso un intervento militare è bello lungo. “Fino a quando qualcuno non risolve la parte dell’equazione che dimostra che dieci milioni di persone a Seul non muoiono nei primi trenta minuti con armi convenzionali, non so di cosa si stia parlando: non esiste una soluzione militare”, ha chiarito l’ormai ex chief strategist di Trump, Steve Bannon.
Plachiamo gli allarmismi dunque. Ci saranno altri test missilistici, stiamone certi, ma il caso iraniano può fare scuola. Chi ha un po’ di memoria non faticherà a ricordare quanto spaventoso appariva, solo pochi anni fa, l’Iran. Sembrava in procinto di dotarsi di armamenti nucleari da sganciare su mezzo mondo. E poi? Un’ottima diplomazia ha riportato tutto dentro i canoni della “normalità”. Ora la questione sembra più complessa, ma chissà che non ce la possiamo fare anche con il leader nordcoreano. Questa volta però bisognerà passare da Pechino che, come Mosca, sta giocando la propria partita globale anti-Usa. Le nuove sanzioni approvate dal Consiglio di sicurezza dell’Onu, per quanto mitigate da Russia e Cina, rappresentano un primo passo incoraggiante.