A quasi 20 anni dalla ormai “storica” firma dell’Italia del Memorandum of Understanding per la Concept Demonstration Phase (Cdp) dell’F-35, siglato nel dicembre 1998, il velivolo omniruolo di concezione statunitense di quinta generazione torna ciclicamente alla attenzione istituzionale e mediatica. Per la dimensione aerea sembra sempre valere il vecchio adagio di Sir Winston Churchill, per il quale “di tutte le forme di forze militari, quella aerea è la più difficile da misurare ed esprimere in termini precisi”.
Nel corso dell’audizione parlamentare del 26 luglio, il ministro della Difesa Elisabetta Trenta ha esplicitato la necessità di analizzare con esaustività il programma e il suo profilo acquisitivo nel tempo, bilanciando numerose variabili di natura capacitiva, finanziaria ed industriale. Sempre a luglio, il generale Vincenzo Camporini, vice presidente dell’Istituto affari internazionali (Iai) e già capo di Stato maggiore della Difesa, ricordava a Formiche come il programma viaggi con una specifica contrattualistica di tipo americano, ovvero priva di impegni vincolanti ex ante, a differenza di altri sistemi d’arma europei. Precedentemente, è il caso di rammentare come giusto un anno fa la Corte dei Conti – sezione di controllo per gli Affari comunitari e internazionali – nella delibera 15/2017 del 2 agosto 2017, afferente alla partecipazione italiana al programma F-35, indicava il valore aggiunto della partecipazione italiana (partner di II livello). Determinato anche dalla “presumibile difficoltà di reperire opzioni di livello corrispondente in altri programmi nel medio e forse lungo periodo” (pag. 61). Il corposo documento della Corte – composto da oltre 60 pagine – evidenziava tra gli altri aspetti anche elementi afferenti alla persistenza della fase produttiva (fino al 2038) e alla longevità della vita operativa attesa del sistema (oltre 50 anni), nonché le ricadute e i ritorni tecnologici da parte della base industriale nazionale, dalle grandi industrie alle pmi. Elemento questo peraltro enfatizzato e sintetizzato già nel lontano 2006 dall’allora sottocapo di Stato maggiore dell’Aeronautica, Giuseppe Bernardis.
Appare a questo punto rilevante esprimere una riflessione di natura concettuale, a parziale contributo del perimetro di valutazione prospettica esperibile sul programma nel lungo-lunghissimo periodo. L’elevatissimo livello tecnologico che caratterizza l’F-35 garantisce (e garantirà esponenzialmente in futuro con gli incrementali Block di sviluppo) la possibilità di condividere in tempo reale una mole impressionante di informazioni con i sistemi che operano negli altri domini – compreso quello cibernetico – assicurando un irrinunciabile vantaggio informativo sui potenziali avversari. Secondo taluni, il velivolo – definito giornalisticamente flying computer, con oltre otto milioni di linee di codice software imbarcate – possiede già oggi (e avrà sempre di più) capacità di rilevazione fuori dal comune, oltre l’attuale logica “mono-funzionale” di macchine SigInt (Signal Intelligence) o Istar (Intelligence, Surveillance, Target Acquisition, Reconnaissance) dedicate grazie alla sensoristica aeroportata e al data fusion applicabile (vedasi in proposito un dettagliato articolo/reportage apparso su RID – Rivisita Italiana Difesa di agosto 2018).
Sotto questa prospettiva, l’F-35 non è allora da considerare e visualizzare in modo tradizionalmente “cinetico”, come un semplice velivolo avanzato, ma come una vera e propria piattaforma di comando, controllo, processamento e condivisione (selettiva e mirata) di dati informativi e immagini operative. Il nuovo paradigma è incentrato sulla figura di data manager, laddove il velivolo funge da vero e proprio “stregone” di informazione rilevante. Un moderno “Merlino” tecnologico, laddove citando una celebre frase dello scrittore britannico Arthur C. Clarke (1917-2008), “qualunque tecnologia sufficientemente avanzata è indistinguibile dalla magìa”. Una “magìa” che, è appena il caso di ricordare, può avere spesso, in tempo differito, ricadute virtuose di secondo e terzo ordine anche nel settore civile a beneficio dell’intera collettività: si pensi alla derivazione militare di Internet, spin off di Arpanet, una rete concepita a fine anni Sessanta dalla Difesa statunitense. O anche al sistema di navigazione satellitare. Oggi strumenti quotidiani, ma in origine pensati per un diverso utilizzo e una finalità.
Nell’Aeronautica 4.0 prefigurata e modellata in modo incrementale dal suo attuale capo di Stato maggiore, Enzo Vecciarelli, è oggi centrale la crescita collettiva e corale della Forza armata nel supporto alla capacità abilitante rappresentata dall’F-35, con enfasi al change management in un’ottica trasformativa di quinta generazione. Si tratta di una stimolante sfida prima di tutto umana, lavorando su modelli mentali e processi a tendere. Avendo comunque sempre a mente la necessità di evitare un “F-35 centrismo” assolutista, considerando adeguatamente anche il valore specifico delle linee non aerotattiche (velivoli da trasporto /droni / componente ad ala rotante), nonché la funzione dell’addestramento avanzato e le esigenze del settore Spazio e di difesa aerea e missilistica. In sostanza, ricercando un bilanciamento capacitivo dello strumento aero-spaziale integrato nel sistema della Difesa e al servizio delle esigenze del Sistema Paese, oltre le tradizionali logiche single service.
Modellando quindi la futura flotta attorno a scenari attesi quantomeno “bivalenti”, in modalità teoricamente sovrapponibile e simultanea: tra profeti a bassa e alta tecnologia (estremisti fondamentalisti e cyber-hackers) e colossi (attori statuali) ad alta e bassa tecnologia, riprendendo una classificazione concettuale introdotta oltre 15 anni fa dal teorico e studioso statunitense di OsInt Robert David Steele.
L’F-35 (nelle sue versioni A/Ctol e B/Stovl) sarà infatti un nodo operativo fondamentale da porre in regime di inter-connessione permanente, un hub abilitante per altre funzioni terrestri, navali e cyber (c.d. capacità net-centriche) in un’ottica di Joint Force. Nei trend previsionali da qui al 2040, il “datismo” elettronico avrà verosimilmente un ruolo centrale (se non preponderante) negli scenari operativi futuri, sovraccarichi di potenziali rischi da information overload o anche da misleading information.
Appare auto-evidente come la superiorità informativa assuma una priorità assoluta, muovendo nel continuum tattico-locale/strategico-globale. In un’epoca “iper-informativa”, dopo il concetto di strategic corporal, è forse il caso di parlare anche di strategic aircraft dalla fisionomia operativa sempre più “liquida”, ovvero altamente flessibile e adattabile, oltre le classificazioni di ruolo canoniche (in quanto pensato come strike fighter, ovvero intrinsecamente multipurpose by design). Tale trend di liquidità eviterà verosimilmente anche effetti di polarizzazione divisiva tra correnti di pensiero operativo differenti sui sistemi d’arma, storicamente note nell’USAF del XX secolo come “bomber mafia” (fautori della supremazia del velivolo pesante strategico) e “fighter mafia” (propugnante invece la manovrabilità e maneggevolezza aerea quale qualità essenziale).
Detto ciò, appare quasi paradossale il fatto che, in questo slancio e rincorsa al futuro, proprio l’F-35 appartenga, per certi versi, già quasi ad un “passato programmatico”. Questo accade poiché la lancetta del futuro corre sempre più veloce e le progettazioni di sistemi d’arma hanno profili di pensiero e produzione sempre più estesi e complessi, spalmati su archi temporali amplissimi. Al recente salone internazionale di Farnborough, nel luglio 2018, si è parlato ad esempio già di velivoli di sesta generazione con il Tempest britannico, che secondo i piani dichiarati dovrebbe sostituire il velivolo F-2000 nella Royal Air Force attorno al 2035, operando in modalità tanto unmanned (ovvero, più propriamente, da pilotaggio umano “remoto”) quanto manned. Intersecando ulteriormente e quasi fondendo le categorie – ora ancora divisive – di velivolo convenzionale e drone.
Il Consorzio che lavora al progetto Tempest vede la lead britannica con BAE Systems e Rolls-Royce, oltre alla presenza di Leonardo e MBDA. Proprio Giovanni Soccodato, capo strategie di Leonardo, facendo eco all’approccio esposto dal segretario alla Difesa inglese Gavin Williamson, non ha escluso in una recente intervista resa al sito americano DefenseNews futuri (ed inediti) incroci industriali e finanziari per questo programma, coinvolgendo potenzialmente anche altri Paesi europei. Per il velivolo, stando a quando riferito dal quotidiano inglese The Guardian, si parla già di utilizzo di artificial intelligence e machine learning, armi a energia diretta, laser e micro-onde (con relativo “salto quantico” rispetto alla contabilità e alla quantità di armamento imbarcato disponibile).
Come allora raccordare e accordare questa progettualità nascente rispetto al coevo progetto franco-tedesco denominato Scaf (Système de Combat Aérien Futur) che secondo quanto annunciato da Airbus e Dassault Aviation sarà un “sistema di sistemi”, comprendente droni, connettività e comunicazioni protette pronte tra 2035 e il 2040? Il generale dell’aeronautica francese Andrè Lanata (prossimo Nato Act Commander) e quello tedesco Erhard Buhler hanno siglato un documento di requisito comune lo scorso aprile al salone internazionale ILA di Berlino. Mai come in questo caso, è il caso di dire che il futuro è già presente, e convive ancora pienamente con il passato: il bombardiere strategico americano B-52, la “fortezza volante” in servizio nell’USAF dal 1955, solca ancora maestosamente i cieli del mondo, dal Medio Oriente al Mare cinese meridionale. Stessa longevità operativa va riconosciuta al ricognitore da alta quota U2 Dragon Lady, realizzato dagli Skunk Works di Lockheed Martin, attivo dai tempi del presidente Eisenhower e della crisi dei missili di Cuba e ancora in attesa della maturità operativa dei maggiori droni destinati alla sua sostituzione.
Da qui l’importanza di far tesoro di valutazioni a impatto incrociato riflettendo su sistemi d’arma multipli, in modo olistico e trans-generazionale: con uno sguardo che sia al tempo stesso retrospettivo, predittivo a respiro pluridecennale e proiettato ai nuovi tempi della cyber-sicurezza e cyber-vulnerabilità. Per usare le parole espresse da Sir John Slessor, già a capo della Royal Air Force negli anni 50 del secolo scorso: “Il più grande errore che si possa commettere nel pianificare e delineare i possibili scenari di minaccia futuri è credere che la guerra che verrà sarà uguale a quella precedente. Altrettanto grave è pero credere che i conflitti futuri saranno così diversi da quelli passati da non tenere in considerazione le lezioni apprese e identificate in passato”.
Articolo di Diego Bolchini, collaboratore dell’Istituto affari internazionali (Iai), analista e cultore di studi geopolitici, di difesa e sicurezza