Il caso Finmeccanica. Difendere gli interessi dell’Italia non è reato

Di Andrea Armaro e Michele Nones

L’intervento di Andrea Armaro e Michele Nones pubblicato su Il Messaggero mercoledì

L’assoluzione dei vertici di Finmeccanica e di AgustaWestland dall’accusa di corruzione internazionale per la commessa di 12 elicotteri EH 101 venduti all’India nel 2010 mette la parola fine ad una vicenda che ha segnato non solo i dirigenti coinvolti, ma anche l’industria italiana della difesa. Molti degli attuali problemi sono legati a quella vicenda ed è anche per questo che non ci si può limitare a sostenere che alla fine è stata fatta giustizia.

Quella commessa aveva rappresentato il più grande successo conseguito da Finmeccanica sul mercato internazionale, inserendosi in un mercato dominato da russi e francesi all’interno di un’area in grande espansione. In questo modo si erano anche tamponati gli effetti della cancellazione, l’anno precedente, del programma americano per la sostituzione dell’elicottero presidenziale con lo stesso modello 101 (dovuta a ragioni di protezionismo industriale e di crescita dei costi della versione coprodotta dall’industria americana). AgustaWestland in quel momento rappresentava il fiore all’occhiello del gruppo Finmeccanica, con i maggiori utili e il maggiore portafoglio ordini. Al punto che si ironizzava sul fatto che non fosse AgustaWestland “un’azienda Finmeccanica” (come tutte le altre), ma che fosse Finmeccanica a poter diventare “un’azienda AgustaWestland”. Da quel momento è iniziata la caduta degli ordini militari, aggravata dalla parallela crisi del mercato civile legato all’estrazione di petrolio e gas.

Con il cambio del vertice del gruppo, deciso nel 2011, era iniziata un’operazione di pulizia dei conti che è stata fortemente contrastata da alcuni dirigenti. Si era, inoltre, avviata una riflessione sull’opportunità e necessità di razionalizzare le attività e favorirne la concentrazione sulle aree di eccellenza tecnologica. Il clamoroso arresto del suo capo e del suo più stretto collaboratore (che lo aveva sostituito nell’azienda elicotteristica), avvenuto nel febbraio 2013, hanno decapitato il vertice di Finmeccanica, impedendo l’attuazione di questa strategia e innescando un ciclo di sostituzioni che si sono dimostrate, fino ad ora, fallimentari.

In questi cinque anni Finmeccanica e l’Italia hanno subito pesantissimi danni sul piano dell’immagine. È sembrato che la vendita degli elicotteri EH 101 non fosse legata al fatto che erano, nella loro categoria, i migliori al mondo e che erano stati selezionati attraverso un lungo e accurato esame, ma alla corruzione di qualche funzionario indiano. Si è, quindi, accreditata la tesi che l’India fosse un paese quasi sottosviluppato in cui contano solo le bustarelle e non la più grande democrazia del mondo, con un sistema statale basato sul modello anglosassone. Si è teorizzato che la corruzione fosse la prassi nelle vendite italiane e che, di fatto, il nostro rigoroso sistema di controllo delle esportazioni fosse assolutamente inefficiente. Si è, infine, evidenziato che nel nostro paese non è garantita la riservatezza delle indagini e che i processi si fanno prima sui mass media e poi nei tribunali e questo, nel campo della difesa e della sicurezza e delle relazioni internazionali, costituisce inevitabilmente un fattore particolarmente negativo.

In questa vicenda vi è stato, però, un grande assente, il governo italiano. Per non essere accusato di voler interferire, o forse per timore di ritorsioni, i governi si sono chiamati fuori da ogni assunzione di responsabilità. Eppure l’azionista di riferimento di Finmeccanica, oggi Leonardo, è lo Stato attraverso il Ministero dell’economia. Ci si può domandare se al suo posto un azionista privato si sarebbe così disinteressato del suo investimento, coi risultati che si sono visti. Ma è stato il governo a scegliere la maggioranza dei consiglieri, i sindaci, la società di revisione e il vertice del gruppo. Ed è sempre il governo a dirigere il sistema di controllo delle esportazioni. E, ancora, il governo a guidare il nostro sistema di relazioni internazionali e a presidiare il nostro sistema di raccolta delle informazioni esterne e interne nel campo della sicurezza. Il governo aveva, dunque, gli strumenti per intervenire tempestivamente ed opportunamente, tutelando i nostri interessi nazionali.

Ora non resta che rimboccarsi le maniche e provare ad impedire che analoghe vicende possano ripetersi, attenendosi, almeno, a queste possibili linee di azione:
1. Quando un’indagine giudiziaria riguarda i principali gruppi industriali del paese, sarebbe doveroso assicurare rapidità, cautela, serenità e riservatezza, quattro valori che in questo caso sono risultati latitanti. Ci sono voluti cinque anni per arrivare ad una conclusione che, vista l’assenza di prove, poteva arrivare molto prima.
2. Quando un’indagine riguarda un gruppo industriale di cui lo stato è l’azionista di riferimento, quest’ultimo deve esercitare i diritti e doveri che gli competono, cercando di salvaguardare il valore dell’investimento pubblico nell’impresa coinvolta. Lo stato deve, quindi, essere parte attiva, non spettatore, peggio ancora disinteressato.
3. Quando è coinvolto un altro paese, soprattutto se rappresenta un mercato importante, e un settore delicato, come quello militare, lo stato deve proteggere anche l’interesse nazionale, utilizzando tutti gli strumenti giuridicamente disponibili e l’azione politica internazionale.

L’obiettivo deve essere quello di rassicurare il cliente sulla fiducia che riponiamo, fino a prova contraria, nella correttezza della sua gestione della commessa, sull’impegno italiano nel rispettare il contratto e sull’affidabilità del nostro sistema industriale. In altri termini, fare tutto il possibile per circoscrivere i danni e non pregiudicare la collaborazione con quel paese.

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