Frontiere e diritti nel Mare Nostrum

Di Leonardo Tricarico

Nel solo 2014 in Mediterraneo sono morti oltre 3.419 migranti. Di fronte a questa tragedia in corso da anni la risposta dell’Ue è stata inadeguata. La salvaguardia della vita umana in mare è un obbligo sancito da numerosi accordi internazionali. Di fatto, tale obbligo non è stato mai sancito nella Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu). Per salvaguardare la vita umana in mare, è necessario che l’Europa recepisca l’obbligo attraverso un Protocollo aggiuntivo alla Cedu, che tra l’altro nel preambolo si rifà esplicitamente alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo dell’Onu. Allineare le due normative porterebbe la questione della salvaguardia della vita in mare sotto la giurisdizione della Corte Edu, rendendo quindi sanzionabile chi omette di soccorrere chi è in pericolo di vita.

Non si può più tollerare che il Mediterraneo diventi un grande cimitero

Nel 2014 l’Europa e i suoi valori sono morti 3419 volte, tante quanti i disperati abbandonati a loro stessi nel Mediterraneo. Tutto questo in nome di una concezione miope, che cerca ogni possibile appiglio formale pur di sottrarsi all’umana solidarietà, sulla quale prevalgono la paura, l’egoismo e la cupidigia. Questo può essere il senso delle parole pronunciate nell’aula parlamentare di Strasburgo il 25 novembre 2014 da papa Francesco: “Non si può più tollerare che il Mediterraneo diventi un grande cimitero”, parlando da autorità morale prima ancora che religiosa e tanto meno confessionale.

Come ci ricorda la Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali” (Cedu), siglata a Roma il 4 novembre del 1950, gli Stati sottoscrittori avevano messo al centro della costruzione il rispetto dei diritti, ai quali peraltro si fa tuttora riferimento nel vagliare le candidature di nuovi Paesi membri.

La proposta qui avanzata, di inserire la salvaguardia della vita in mare tra i diritti fondamentali alla base del trattato, non risolverà certamente un problema che ha cause profonde, complesse e storicamente lontane. Tuttavia, in questa sede, la ricerca di una soluzione alle frequenti tragedie umanitarie nel Mediterraneo, si pone l’obiettivo primario di sensibilizzare tutti i Paesi membri del Consiglio d’Europa e dell’Ue (che sembrano ritenere ormai i principi della Cedu inamovibili e inapplicabili a loro stessi) affinché agiscano il più rapidamente possibile.

Le colpe dell’Europa

A tal fine, in primis, va ritenuto inaccettabile il tentativo di ridurre una tragedia umanitaria, di proporzioni inimmaginabili, al problema temporaneo di uno Stato, l’Italia, che la geografia ha casualmente posto in prima linea nel fronteggiare crisi talvolta create dal comportamento avventuristico di altri Stati membri. La risposta degli Stati europei non può che essere strutturale, all’altezza del suo livello di civiltà e di tecnologia e coerente con i propri valori fondanti. Non elemosine né ipocrisie, dunque, ma un’organizzazione capace ed efficace, votata in permanenza ad affrontare il drammatico fenomeno delle migrazioni causate da guerre, fame, persecuzioni e sofferenze di ogni natura.

L’Europa ha quindi necessità di un sistema di Ricerca e soccorso efficace, ma la risposta che l’Ue ha sinora messo in campo per assicurare la vita in mare con una missione border control, come Triton, con le forti ambiguità e i limiti propri del mandato di Frontex, non rappresenta sicuramente la risposta più adeguata a far fronte alle pressanti esigenze, in termini di salvaguardia della vita umana in mare, che vengono oggi in evidenza, alla luce dei flussi migratori che attraversano il mare Mediterraneo.

D’altronde, gli obiettivi di fondo di missioni come Triton sono inequivocabili: rafforzare la protezione delle frontiere esterne all’Europa a compensazione della caduta di quelle interne in conseguenza di Schengen. In questi ultimi anni le uniche politiche intraprese dall’Europa sono state pertanto improntate unicamente a criteri di controllo delle frontiere e gestione della sicurezza, demandando ai singoli Stati le politiche di soccorso e assistenza in mare.

È accettabile questa impostazione, può la risposta dell’Ue essere posta solo in termini di controllo delle frontiere? Un tale modello normativo e tecnico-operativo è coerente con lo spirito e il dettato della Convenzione europea dei diritti dell’uomo?

La tutela della vita umana in mare deve rivestire un ruolo prevalente e assorbente di ogni altro aspetto, anche in stretta adesione ai principi della Cedu. Perseguire questa tutela da parte degli Stati membri dell’Ue potrà contribuire a dimostrare che il premio Nobel per la pace attribuito all’Ue nel 2012 rispecchia un effettivo impegno per “il contributo dato per oltre 60 anni dall’Ue alla promozione della pace e riconciliazione, della democrazia e dei diritti umani”, come si legge nel sito istituzionale della stessa Commissione europea.

Sono anni che gli Stati costieri, tra cui l’Italia, richiamano l’attenzione della politica comunitaria sulle continue morti in mare, sul continuo aumento di cadaveri e barconi che giacciono sui fondali europei e la mancata cooperazione tra gli Stati per la gestione del soccorso.

È quindi necessario verificare, in questa sede di analisi, se la risposta dell’Unione europea alla sfida posta dall’impatto dei flussi migratori via mare sia rispondente al quadro generale del diritto internazionale sul tema della salvaguardia dei diritti fondamentali della persona e, in particolare, ai principi sanciti (e a quelli desumibili sul piano logico-interpretativo) dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu).

Montego Bay obbligo morale prima che giuridico

La visione restrittiva della competenza Ue in materia deriva dalla mancanza di uno specifico accordo in ambito comunitario sul soccorso in mare. Se ciò in punta di diritto, può trovare qualche fondamento, la realtà sostanziale è ben diversa. Per quanto riguarda la normativa internazionale in materia di soccorso e salvataggio di persone e/o di migranti in difficoltà in mare, il punto di partenza è la convenzione di Montego Bay (United Nations convention on the law of the sea, Unclos), che rappresenta la fonte primaria del diritto internazionale del mare. L’art. 98, primo comma, sancisce l’applicazione fondamentale della solidarietà imponendo al comandante di una nave di prestare soccorso a chiunque si trovi in pericolo in mare, qualora si sia avuta in qualunque modo notizia di una tale situazione. Tale norma, rappresenta un obbligo morale ancor prima che giuridico, e incarna un antico principio di natura consuetudinaria “firmly established in both treaty and general international law”, sancito da varie convenzioni anche precedenti l’Unclos. Il secondo comma dello stesso articolo sancisce che gli Stati costieri debbano creare e curare il funzionamento di un servizio permanente di ricerca e salvataggio adeguato ed efficace per garantire la sicurezza marittima e aerea collaborando con gli Stati vicini nel quadro di accordi regionali.

La Convenzione di Amburgo del 1979

Anche gli altri riferimenti normativi convergono su questo principio. La Convenzione di Amburgo del 1979 sul soccorso in mare (Sar) sancisce in ambito Onu l’obbligo giuridico del soccorso in mare per chiunque si trovi nelle condizioni di poter soccorrere persone in stato di pericolo e di allertare immediatamente le autorità competenti.

È importante sottolineare che la Convenzione di Amburgo non stabilisce aree di responsabilità esclusiva, ma fondandosi sul principio di cooperazione tra gli Stati stabilisce che la responsabilità primaria di assistenza spetta allo Stato competente per la zona di mare interessata, al quale sono attribuiti a tal fine poteri-doveri di coordinamento. La Convenzione di Amburgo però non esclude -e anzi sollecita – l’intervento di Stati terzi qualora il primo non sia ancora intervenuto, oppure non sia in condizioni di farlo, o comunque quando l’imminenza del pericolo lo richieda.

L’obbligo di soccorso in mare, in base alla suddetta Convenzione, può dirsi soddisfatto solo quando le persone in pericolo hanno ricevuto le prime cure mediche e sono approdate in un luogo sicuro. La definizione di “luogo sicuro”, tuttavia, non è descritta e regolamentata dalla Convenzione Sar, ma di recente l’International maritime organization (Imo, l’organismo Onu sulla navigazione marittima) ha stabilito criteri più specifici definendo “place of safety” il luogo in cui le operazioni di recupero possono considerarsi ultimate e le persone soccorse non sono più in pericolo di vita e dove siano soddisfatte le necessità primarie, come assistenza medica, cibo e riparo. L’obbligo dell’individuazione e costituzione dei “place of safety” grava su tutti gli Stati coinvolti che devono cooperare con lo Stato responsabile per la zona Sar in questione, per la buona riuscita dell’operazione.

Con la Convenzione di Amburgo, in sostanza, gli Stati firmatari hanno espresso la volontà di dettare una normativa uniforme in materia di salvataggio in mare, e in particolare, hanno espresso l’obiettivo di creare una rete mondiale di centri di coordinamento nazionale destinati a sovrintendere a operazioni di salvataggio in zone Sar, tra loro collegati e operanti sulla base di procedure comuni e di comuni regole di condotta. In altre parole, dal 1979, la Convenzione di Strasburgo si impone così come una cornice normativa con lo scopo primario di creare una zona marittima di cooperazione regionale tra gli Stati attraverso il rispetto di precisi termini e procedure entro i quali gli Stati contraenti devono agire per salvare la vita in mare senza discriminazione.

Convenzione sul Soccorso del 1989

La Convenzione sul Soccorso del 1989, la normativa in ambito Nazioni Unite cogente sulla salvaguardia della vita in mare e della cooperazione tra gli Stati, stabilisce all’art.10 l’obbligo di ogni comandante di soccorrere ogni persona che sia in pericolo di scomparsa in mare. Anche tale convenzione sancisce l’obbligo per gli Stati di far adottare tutte le misure necessarie affinché gli obblighi della convenzione siano rispettati.

Il principio del “non refoulement”

Benché la totalità degli Stati membri dell’Ue abbia sottoscritto questi fondamentali accordi Onu, accettandone pertanto gli impegni, manca per ora un documento specifico in sede comunitaria. Nonostante questa lacuna, la Corte Edu ha già emesso una sentenza che estende anche nell’ambito marittimo il principio del non respingimento (“non refoulement”, sancito sin dal 1951 dal paragrafo 1 dell’art.33 della Convenzione sullo status dei rifugiati).

Questo principio di diritto internazionale, parte fondamentale della giurisprudenza Cedu, stabilisce che nessuno Stato firmatario della convenzione espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà possano essere minacciate a motivo della sua razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un gruppo sociale o opinioni politiche. Questa clausola già nel 1951, anno di stesura della convenzione, fu descritta come un’ eccezionale limitazione del diritto sovrano degli Stati di rimandare indietro gli stranieri verso le frontiere di Paesi d’origine dove vi è il timore che siano sottoposti a persecuzioni. Sul piano delle organizzazioni regionali la tutela al non respingimento verso Paesi in cui un soggetto potrebbe essere sottoposto a delle limitazioni di libertà o a trattamenti inumano e degradanti è sancito dall’art. 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (Cedu) del 1950 e dall’art. 2 in riferimento al diritto alla vita.

Sentenza Hirsi: Gli Stati che respingono i migranti verso altri Paesi sono punibili

L’obbligo del rispetto del principio di non refoulement, la sua applicazione e responsabilità territoriale sono state di recente riaffermati dalla Corte europea per i diritti dell’uomo nella sentenza Hirsi. I ricorrenti, 11 somali e 13 eritrei, facevano parte di un gruppo di 200 persone partite dalle coste libiche su tre imbarcazioni dirette verso le coste italiane e intercettate a 35 miglia nautiche a sud di Lampedusa, trasferiti su navi della Marina militare italiana e riportati a Tripoli. I ricorrenti posero in evidenza la violazione dell’art. 3 della Cedu e dell’art. 4 del Protocollo n. 4 sul divieto di espulsione collettiva e dell’art. 13 sul rimedio effettivo, chiedendo di stabilire le circostanze in cui gli obblighi della Convenzione europea si applicano extraterritorialmente.

La sentenza della Corte Edu stabilisce che il criterio decisivo per valutare le responsabilità degli Stati non stia nella presenza di una persona all’interno dei confini di uno Stato ma piuttosto se egli o ella si trovi o meno sotto l’effettivo controllo di uno Stato. La Corte Edu ha sostenuto che, mentre la competenza giurisdizionale di uno Stato è – dal punto di vista del diritto internazionale – principalmente territoriale, essa può essere extraterritoriale se uno Stato, attraverso l’effettivo controllo del territorio in questione, esercita tutti o parte dei poteri pubblici che di norma sono esercitati da quel governo. 

Secondo questa sentenza, dunque, gli Stati che allontanano dalle proprie acque territoriali o respingono i migranti verso altri Paesi hanno una responsabilità punibile con una pena.

È però evidente che la tutela ottenuta per via interpretativa sia insufficiente e comunque tardiva, presupponendo l’essersi già verificato un fatto al quale si chiede rimedio al tribunale.

Una soluzione plausibile

La strada maestra, che risolverebbe alla radice ogni problema, è quella di riconoscere la salvaguardia della vita in mare come diritto inalienabile e quindi inserirlo a pieno titolo tra gli altri già previsti dalla Cedu, nella sua stesura originale e nei protocolli aggiuntivi intervenuti, per esempio, per abolire la prigione per debiti (IV, 1, 1963), sancire la parità fra i coniugi (VII, art.5 1984), ampliare la protezione contro ogni forma di discriminazione (XII, 2000).

L’inserimento di un nuovo protocollo nel testo della Convenzione risolverebbe la contraddizione tra l’assunzione di responsabilità e obblighi precisi in sede Onu e l’inesistenza di obblighi analoghi quando si indossi il “berretto” Ue. La stessa Cedu, d’altra parte, dichiara nel primo capoverso del preambolo la propria origine nella Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, proclamata dall’assemblea generale dell’Onu nel dicembre 1948. L’attuale situazione presenta dunque una doppia ipocrisia, che deve essere superata ribadendo ed esplicitando il recepimento del diritto fondamentale alla salvaguardia della vita in mare, come già fatto per gli altri diritti fondamentali.

In quest’ottica, diventa chiaro l’errore di impostazione delle attuali politiche europee, legate alla protezione delle frontiere esterne, nata per bilanciare in qualche modo l’abolizione di quelle interne. Lo stesso nome Frontex esplicita questo concetto, ripreso peraltro senza significative differenze nell’operazione Triton, non a caso incentrata sul criterio territoriale (distanza dalle coste) già bocciato dalla Corte Edu. L’operazione Triton, presentata come sostitutiva di Mare nostrum, è viziata all’origine dall’impostazione Schengen, incardinata sulla protezione delle frontiere, a ridosso delle coste italo-europee e con interesse solo residuale per la protezione della vita umana e il soccorso in genere. Di contro l’operazione italiana Mare nostrum è stata basata su principi di solidarietà ed effettiva salvaguardia della vita umana, ed è pertanto più coerente con lo spirito delle normative Onu.

Per uscire dall’equivoco è dunque necessario esplicitare la necessaria e vincolante corrispondenza tra i due ambiti Onu e Ue. Per fare ciò è sufficiente inserire nella Cedu un protocollo aggiuntivo che riconosca ufficialmente la salvaguardia della vita in mare, senza stabilire nuovi obblighi, ma semplicemente riconoscendo e recependo a livello comunitario quanto già liberamente sottoscritto in altre sedi.

Ciò, oltre alla limpidezza morale, darebbe anche lo strumento della sanzionabilità dei comportamenti non conformi ai principi, perché la Corte Edu avrebbe automaticamente giurisdizione diretta e non per via interpretativa. La Corte Edu, infatti, è stata costituita con l’art. 19 della Cedu proprio per “assicurare il rispetto degli impegni derivanti alle Alte parti contraenti dalla Cedu e dai suoi protocolli”.

Nell’ambito di un rinnovato modello normativo europeo basato sul riconoscimento pieno dell’elementare principio umanitario della salvaguardia della vita umana in mare, il passo logico e operativo successivo potrebbe essere la creazione di un’agenzia europea di ricerca e soccorso in mare (Eurosar), con compiti istituzionalmente diversi dalla protezione delle frontiere. Tra questi si possono elencare brevemente la ricerca, individuazione (Search) e soccorso (Rescue, quest’ultimo comprendente il trasporto al “place of safety”). Eurosar dovrà anche certificare la capacità di ciascun Paese membro in termini di quantità e qualità dei mezzi e delle strutture rese disponibili (standard addestrativi, procedure, equipaggiamenti, tempi d’intervento e di copertura e altro).

Naturalmente, alla parte Eurosar dovrà affiancarsi una strategia complessiva di gestione di un fenomeno complesso, che non può essere visto come transitorio. L’architettura di sistema dovrebbe quindi considerare gli aspetti generali di programmi di stabilizzazione e sviluppo economico nei Paesi rivieraschi e/o di origine dei flussi migratori, le convenzioni con i Paesi rivieraschi e l’allestimento di centri di pre-immigrazione, nei quali effettuare le necessarie pratiche di identificazione, sicurezza, accertamenti sanitari e titolarità per la richiesta di asilo.

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