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La corsa asiatica verso lo spazio è una questione di potere e prestigio. L’India a novembre ha lanciato in orbita la sonda Mangalyaan verso Marte. La replica di Pechino è arrivata a metà dicembre, quando il rover Yutu, il Coniglio di giada, ha compiuto con successo l’allunaggio. Le due potenze asiatiche sono ormai concorrenti nell’industria spaziale. Un settore in cui la Cina era sembrata aver preso il sopravvento, con i progressi nel progetto di una propria stazione orbitante e con l’obiettivo di mandare un uomo sulla Luna entro il 2020
La corsa verso Marte ha un ruolo vitale nei piani di sviluppo del governo di Nuova Delhi, scriveva il cinese Global Times, giorni dopo il successo nel lancio della prima missione verso il Pianeta rosso lo scorso 5 novembre. Il giornale, costola nazionalista in lingua inglese del governativo Quotidiano del popolo, affidava a un indiano il commento sul lancio del Mangalyaan, com’è chiamata in hindi la sonda portata in orbita dal Polar satellite launch vehicle (Pslv-C25) e spedita con destinazione finale l’atmosfera marziana, dove tra gli obiettivi della missione, dovrà verificare la presenza di residui di metano, uno degli indicatori dell’ipotetica presenza di vita.
“La missione è una delle principali dimostrazioni delle capacità tecnologiche dell’India e riflette la crescente competizione in Asia nella corsa verso lo spazio”, scrive Rajeswari Pillai Rajagopalan, senior fellow alla Observer research foundation di Nuova Delhi, “pari a 73 milioni di dollari, questa è una missione con uno dei migliori rapporti costo-effetto. Ma ci sono anche importanti considerazioni politiche e di sicurezza. Essere la prima nazione asiatica a portare avanti una missione di questo genere è stato un fattore importante nei calcoli indiani”.
La replica di Pechino per evitare di restare indietro rispetto allo sforzo, per giunta low-cost, degli indiani è arrivata a metà dicembre, quando il rover Yutu, il Coniglio di giada, ha compiuto con successo l’allunaggio iniziando a trasmettere immagini dal suolo lunare. Missione compiuta, 37 anni dopo i sovietici i cinesi sono diventati il terzo paese dopo Usa e Russia a portare un proprio mezzo sul satellite.
La concorrenza è rappresentata dall’ambizioso obiettivo indiano di essere lo stato guida dell’Asia in questo settore. Per il Global times, gli indiani sono un caso unico nel “club spaziale globale” per il livello di sviluppo sociale “relativamente basso”, ma ritenuto “ricco” almeno allo stadio attuale. Continua il Gt: “Il populismo ritiene che lo sviluppo nel settore spaziale sia inutile e che maggiori investimenti dovrebbero essere destinati ad esempio all’educazione e alla sanità. Concetti che difficilmente trovano risposta a livello di strategia nazionale”.
A quanti fanno notare, soprattutto in occidente, i costi ridotti rispetto ad esempio ai programmi statunitensi – la missione Nasa Maven ha toccato i 671 milioni di dollari – Kopillil Radhakrishnan, presidente dell’Indian space research organization (Isro), dà un altro punto di vista. “Non mi piace la definizione di ingegneria frugale. La filosofia dell’Isro punta sull’efficacia. Al contrario i russi guardano alla forza e alla resistenza, gli americani all’ottimizzazione. Il nostro obiettivo è arrivare su Marte stando nel bilancio”, ha spiegato a Forbes.
Con il lancio della Mars orbiter mission, l’India è diventata la sesta potenza a tentare la corsa verso il Pianeta rosso dopo Stati Uniti, Russia, Unione europea, Cina e Giappone. Al momento le asiatiche hanno mancato l’obiettivo. Delle 51 missioni lanciate a livello globale, soltanto 21 sono andate a buon fine. I fallimenti di Tokyo nel 1998 e di Pechino nel 2011 non sono quindi casi isolati. Ma non sfugge che l’annuncio del primo ministro Manmohan Singh, datato 15 agosto 2012, arrivò pochi mesi dopo che la missione cinese con il sostegno russo non andò a buon fine.
Mangalyaan, nonostante le polemiche sulla povertà, è considerato un motivo di orgoglio nazionale e ha dato slancio a Nuova Delhi, che spende ogni anno per il proprio programma 1,1 miliardi di dollari, contro i 17,7 chiesti dalla Nasa per il 2013. Le due potenze asiatiche sono ormai concorrenti nell’industria spaziale. Un settore in cui la Cina era sembrata aver preso il sopravvento, con i progressi nel progetto di una propria stazione orbitante e con l’obiettivo di mandare un uomo sulla Luna entro il 2020.
Il programma spaziale cinese, almeno l’idea di avviarne uno, risale a quarant’anni fa, quando Mao Zedong e Zhou Enlai, sull’onda della sfida tra statunitensi e sovietici, ribadirono che la Repubblica popolare non si sarebbe tirata indietro nel traguardo di mandare due astronauti nello spazio. Fu costretta a fare marcia indietro per ragioni economiche nel 1972, in piena Rivoluzione culturale. Bisognerà attendere il 2003 per vedere un “taikonauta”, come sono ormai chiamati gli astronauti cinesi, nello spazio. Un traguardo che fece della Cina la terza nazione a riuscirci dopo Usa e Russia e di Yang Liwei un eroe nazionale, celebrato con una statua nel Museo di storia nazionale su piazza Tiananmen. Alle 21 ore in orbita di Yang, seguirono il lancio di un primo razzo verso la Luna nel 2007 e la camminata nello spazio di Zhai Zhigang l’anno successivo.
Da allora il programma spaziale del Dragone procede spedito, con gli obiettivi civili che si mischiano alle ragioni scientifiche e militari. Lo scorso giugno il Financial Times sottolineava come molti osservatori stiano scrutando le applicazioni militari della corsa cinese allo spazio. In particolare i sistemi satellitari usati dall’Esercito popolare di liberazione per la gestione dei sistemi antimissile. Ampliando un po’ lo sguardo alle polemiche attorno alle mire di Pechino e alle implicazioni sulla sicurezza non sfugge inoltre il dibattito che qualche mese prima si aprì negli Usa sull’opportunità di appoggiarsi ai satelliti commerciali cinesi per avere banda a sufficienza per le comunicazioni dell’Africa command.
Quella della nuova corsa asiatica verso lo spazio, per diversi osservatori è una questione di potere e prestigio. Anche per questo nel commentare il lancio della missione indiana, il portavoce del ministero degli Esteri cinese, Hong Lei, si era affrettato a ricordare che lo spazio aperto “è condiviso dall’umanità intera”. Ogni Paese, ha aggiunto, “ha il diritto di esplorarlo e usarlo pacificamente”, con un’esortazione alla comunità internazionale affinché si impegni per il “mantenimento della pace e lo sviluppo sostenibile dello spazio”.
 
Andrea Pira