Yochai Corem è vice presidente Europa, Medio Oriente e Africa di Cyberbit, azienda israeliana impegnata nell’offerta di soluzioni per la cyber-security. Con un team di hacker, analisti, esperti di sicurezza industriale, docenti e veterani dell’intelligence (tra cui Yochai Corem, già funzionario della celebre Unit 8200), Cyberbit si presenta come la tipica impresa di un Paese che ha fatto della cyber-security un settore strategico per la propria difesa e proiezione internazionale. Con esportazioni per un totale di 6 miliardi di dollari nel 2014 (il 5% del mercato globale del settore secondo i dati del National cyber bureau), Israele è da anni un Paese leader nella sicurezza informatica. Con un approccio basato su un sistema nazionale integrato e collaborativo, Israele vuole farsi trovare pronta di fronte alle sfide, sempre nuove, della rivoluzione digitale. Con Corem abbiamo cercato di capire meglio il modello israeliano e le opportunità di collaborazione con le industrie italiane.
< La digitalizzazione apre scenari sempre nuovi, per i quali si alternano ottimismo e paura. Stiamo andando verso un mondo più o meno sicuro?
> Sicuramente stiamo andando incontro a un mondo più digitale, con enormi opportunità e altrettanti rischi. La digitalizzazione offre più informazioni ma ci lascia più esposti, anche considerando quanti sono spaventati dalla condivisione delle informazioni. Se dunque da una parte avremo un mondo con più informazioni, dall’altra ci saranno vulnerabilità maggiori rispetto al passato; le nostre postazioni, le connessioni e persino il contenuto di esse sarà più esposto a rischi e pericoli. La prima responsabilità nel far fronte a tutto ciò è sicuramente dei produttori di tecnologie. Poi spetta ai consumatori, che siano privati o aziende, verificare di avere gli strumenti e le metodologie adatti e il capitale umano efficientemente preparato alle sfide della rivoluzione digitale. Si pensi solo ai manager aziendali. Tutti possiedono un’ottima comprensione delle sfide finanziarie e di business, ma pochi sono avvezzi alla cyber security, alla privacy o a quanto fatturato nei prossimi 5 anni possa dipendere dalle minacce a questi settori. Una maggiore conoscenza permetterebbe di rispondere anche a questa domanda.
< Sarà dunque il nostro grado di preparazione collettiva a fare la differenza?
> Credo proprio di sì. Una parte essenziale per capire se stiamo andando verso un mondo più sicuro è verificare se la cyber security è parte del nostro sistema educativo, dalla scuola fino ai corsi per manager e alti funzionari.
< Israele sembra essere stata tra i primi a comprenderlo.
> Israele ha capito che parte della propria capacità di continuare a esistere consiste nell’usufruire della bellezza e dell’essenza delle nuove potenzialità di Internet. Per questa ragione, il governo ha istituito il National cyber bureau, alle dirette dipendenze dell’ufficio del primo ministro: un programma completo in cui rientrano tutte le diverse componenti della società. Un’intera sezione del Bureau, in stretta collaborazione con il ministero dell’educazione e con organizzazioni giovanili, si occupa di programmi educativi, sin dai corsi nelle scuole elementari su come usare in sicurezza computer o social media e come difendersi da un attacco hacker. In tutte le maggiori università israeliane si offrono corsi e programmi scientifici in materie cyber; ma non solo nella facoltà di ingegneria o di elettronica, anche in facoltà completamente diverse come antropologia, legge o economia. Inoltre, le autorità hanno fornito delle linee guida per la certificazione del personale di cyber-security. Ci sono cinque livelli di expertise che possono essere riconosciuti, così che al momento dell’assunzione si possa immediatamente verificare quale è la qualifica e la specifica competenza dell’esperto.
< Guardano fuori dal Paese, quali sono le opportunità di business in Europa e in particolare in Italia?
> Siamo entrati nel mercato italiano lo scorso anno. E credo che l’Europa, ma vale anche per l’Italia, sia dai due ai quattro anni in ritardo rispetto alle attività in Israele. Probabilmente il panorama delle minacce in Italia è più basso e limitato rispetto a quello israeliano e ciò contribuisce a questo ritardo. La cooperazione tra aziende israeliane come Cyberbit e le industrie, il governo, le università, le infrastrutture critiche e le banche italiane potrà permettere di recuperare terreno. Gli attacchi informatici sono ormai potenzialmente in grado di mettere in ginocchio una nazione intera. E Israele, probabilmente a causa delle sua posizione geografica, lo ha capito. Oggi ci sono circa 400 aziende che si occupano di cyber-security; un dato che, se comparato alla popolazione, permette di comprendere il grado di innovazione e ricerca tecnologica nel Paese. Israele e Italia hanno una mentalità di fare business molto simile, e ciò offre diversi modi per collaborare. Cybertech Europe 2016 è stato un evento importante per esporre tecnologie e know how israeliani al mercato italiano, ma anche per comprendere cosa possa essere utile alle industrie e al governo italiano. E siamo solo all’inizio.
< Ci sono ambiti specifici in cui crede si possano stabilire partnership con aziende italiane?
> Il nostro focus nel mercato europeo e italiano si concentra su una molteplicità di aree. Tra queste ne citerei due. Prima di tutto, la formazione: abbiamo centri di ricerca in tutto il mondo, comprese Svizzera, Inghilterra e Germania. Stiamo cercando il giusto partner per attivarne anche in Italia. In secondo luogo, ci stiamo rivolgendo alle infrastrutture critiche. Stiamo cercando anche in questo campo i giusti partner per portare sul mercato italiano i prodotti israeliani.