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La copertina del libro Democratic Militarism
La copertina del libro Democratic Militarism

Vi proponiamo la prima parte dell’intervista di Airpress con Jonathan D. Caverley, fellow presso il Woodrow Wilson Center for International Scholars, e ricercatore associato in Political Science and Security Studies presso il Massachusetts Institute of Technology (Mit). Caverley è autore della ricerca “Democratic Militarism: voting, wealth and war”, un interessante sovvertimento della generale convinzione secondo cui le democrazie tendono ad essere regimi pacifici e meno inclini alla guerra. Attraverso l’analisi storica e statistica, Caverley dimostra che i regimi democratici sono diventati più bellicosi. Questo è avvenuto perché, date le condizioni di disuguaglianza economica e di sviluppo tecnologico, l’elettore medio è più incline a sostenere l’aumento della spesa militare in quanto avverte che i costi della stessa, in termini di vite umane e di tassazione, sono inferiori rispetto ai benefici che ne conseguono in termini di sicurezza.

< Potrebbe spiegare ai nostri lettori il punto centrale della sua ricerca “Democratic Militarism”?

> L’argomento è molto semplice: la gestione di operazioni militari è diventata, specialmente in democrazie come Stati Uniti, Italia, Gran Bretagna, Francia e Israele, un esercizio di mobilitazione fiscale più che sociale. Ciò comporta conseguenze per il fatto che le guerre sono combattute più con i soldi che con le persone, così che i costi per l’elettore medio siano molto bassi. Questo crea incentivi a intraprendere conflitti smart, intelligenti ma più lunghi, e a realizzare operazioni come l’invasione americana dell’Iraq e dell’Afghanistan, come il cambiamento di regime in Libia o come le operazioni di Israele a Gaza. Tutti questi conflitti si conformano a un tipo di warfare che rende le democrazie più bellicose. E questo è l’argomento centrale del mio libro.

< Uno degli assunti su cui si basa “Democratic Militarism” è che le operazioni militari sono valutate fiscalmente perché rappresentano uno strumento per raggiunge un bene pubblico: la sicurezza. Come può lo stesso ragionamento funzionare per quelle operazioni militari lontane dai confini nazionali e che non presentano apparentemente un legame con la sicurezza nazionale?

> Domanda molto interessante. È in realtà quasi sempre non facile, ma quanto meno fattibile, collegare molte delle attività distanti dai confini nazionali con la sicurezza. Per l’Italia ad esempio, la Libia e la Siria possono essere legate alla questione dei migranti, ovviamente di importanza incredibile tale da giustificare il ricorso alla marina come risposta militare. Un altro esempio è il terrorismo: un fenomeno che spaventa tantissime persone nonostante il rischio reale per ciascuna di esse sia molto basso. E gli Stati Uniti hanno giustificato quasi tutti i conflitti degli ultimi 15 anni con la guerra globale al terrorismo; ed essa è stata avvertita personalmente dal pubblico americano così come da quello francese più di recente. I capi di Stato hanno una grande capacità di rendere le cose un fatto di sicurezza se hanno bisogno che lo siano.

< Sembra una questione di propaganda

> Fino a un certo punto. Credo che la teoria del mercato delle idee potrebbe fornire una spiegazione migliore. Ritengo che Obama abbia chiaramente notato che il terrorismo non è una minaccia esistenziale diretta contro gli americani negli Stati Uniti. Allo stesso tempo però si sente obbligato a rispondere politicamente alla percezione della minaccia. Non si tratta dunque di creare una minaccia che non esiste, ma piuttosto di un dare-ricevere tra popolo e leadership. E questo non è un processo unidirezionale. La propaganda è chiaramente importante, ma credo che i governi italiani, francesi, britannici e americani stiano tutti rispondendo a ciò che ritengono il pubblico voglia.

< Quale è stata, considerando le aspettative che aveva all’inizio, la conclusione più sorprendente della sua ricerca?

> Ciò che ritenevo fosse realmente importante era la tecnologia, e l’idea che si possa usare il capitale al posto del lavoro. E questo è effettivamente stato individuato come molto importante. Tuttavia, il risultato empirico più sorprendente è, secondo me, il legame tra disuguaglianza e supporto alle operazioni militari. Uno dei risultati più forti della ricerca è il fatto che meno reddito e meno benessere si possiede, specialmente in America e Israele (poiché sono questi i Paesi che ho studiato più a fondo), più supporto si concede a operazioni militari e all’aumento della spesa per la difesa. Ciò avviene perché il beneficio percepito è più alto del costo pagato con il versamento delle tasse.

< Questi risultati sembrano minare la tradizionale convinzione dell’eccezionalismo democratico. Può spiegare meglio in che modo?

> C’è una forte convinzione, tra i leader e gli studiosi di politica americani, secondo cui le democrazie tendono a combattere conflitti più intelligenti, a vincerli, e a negoziare di più rispetto ad altri regimi. Ciò spesso giustifica la diffusione con la forza della democrazia nel mondo. Prendendo in considerazione i conflitti che si svolgono attualmente nel mondo, i maggiori Paesi occidentali o vi sono coinvolti direttamente, come avviene in Iraq, in Siria, in Afghanistan e in Libia, o indirettamente come accade per il supporto all’Arabia Saudita nel trasferimento delle armi in Yemen o per l’assistenza finanziaria europea e americana che, a seconda di come la si guardi, estende o riduce i conflitti in Paesi come Sud Sudan e Somalia. Quindi, l’idea che gli Stati democratici siano pacifici mi sembra sbagliata nonostante sia tutt’ora l’assunto generale. Crediamo, come cittadini di democrazie, di essere pacifici, intelligenti e vittoriosi, ma mi sembra che non sia più il caso.