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L’arrivo della compagnia degli emirati, Etihad, nel capitale di Alitalia coincide con l’ingresso di Matteo Renzi a Palazzo Chigi. Non è stato un calcolo di chi ha condotto le trattative per creare le condizioni del rafforzamento industriale del vettore italiano. Le dichiarazioni dell’ad Gabriele Del Torchio lasciano intendere che alle nozze tra i due vettori il neo premier è un invitato molto atteso. “Renzi ha tutto il tempo che vuole per darci una valida mano. Per chiudere con Etihad ci vogliono un paio di mesi”, ha spiegato Del Torchio. Una frase che conferma e ribadisce la prima regola che insegna il dossier Alitalia: se un’attività è considerata strategica per gli interessi nazionali, il governo e la politica, hanno il diritto e il dovere di metterci le mani. Così è stato per il recente salvataggio finanziario di Alitalia, prima, e per la ricerca di un partner industriale, poi. L’esecutivo, al tempo guidato dal premier Enrico Letta, fa suo questo assunto. E il 10 ottobre dello scorso anno nella rosa dei candidati per diventare il socio forte di Alitalia spunta un partner inatteso: Poste Italiane. Il gruppo pubblico guidato da Massimo Sarmi, contattato dal governo, socio totalitario dell’azienda postale, dà subito il suo assenso di massima per sottoscrivere l’aumento di capitale necessario a salvare la compagnia dal default. Ed è in quel momento che si apre la rIscossa dell’azienda di Via della Magliana.
Alitalia, a corto di liquidità, ha di fronte a sé un destino quasi segnato: fallimento e acquisto a prezzo di saldo da parte di Air France che, con pochi euro, avrebbe ottenuto rotte strategiche e sarebbe diventato il dominus dei flussi di traffico da tutto il mondo verso l’Europa. Un rischio grosso. Lasciare ai transalpini il controllo dei milioni di turisti che portano liquidità nella casse dei Paesi dell’Unione europea e limitare la mobilità della comunità finanziaria e imprenditoriale centrando tutte le attività di gestione a Parigi è una sconfitta del sistema nazionale. Pochi capiscono la posta in gioco. Il sentimento comune è il rammarico per l’occasione persa qualche anno prima all’epoca del piano Fenice caldeggiato dal governo Berlusconi nel cedere tutto ad Air France, evitando di bruciare capitali pubblici e privati. Non la pensava così il governo Letta che, sulla base di analisi strategiche, alzava la posta. La cifra della ricapitalizzazione già in calendario e verso la quale i soci sono riottosi sale a 300 milioni di euro a cui si aggiungeranno linee di credito per altri 200 milioni. Ai “capitani coraggiosi” guidati da Roberto Colaninno viene chiesto, in cambio del sostegno,la discontinuità nella gestione aziendale. “Alla compagnia servono discontinuità, stabilizzazione dell’azionariato e un’importante ristrutturazione attraverso un nuovo progetto industriale. L’entrata di Poste è fondata su queste premesse”, spiegava Palazzo Chigi per il quale “Alitalia è un asset strategico per il Paese, ma non senza condizioni: sono necessarie una profonda revisione del piano industriale e l’adozione nei tempi più rapidi del piano da parte dei nuovi organi societari. Solo in questo modo si potranno garantire alla società prospettive concrete di sviluppo e integrazione in un network globale”. Non c’è altra scelta. Il consiglio di amministrazione di Alitalia esegue e approva “all’unanimità la manovra finanziaria per complessivi 500 milioni di euro”.
L’intervento prevede un aumento di capitale da 300 milioni di euro “da offrirsi in opzione ai soci” e 200 milioni “di nuove linee di credito da parte del sistema bancario e la conferma delle linee esistenti”. In questo contesto, subordinatamente all’approvazione degli organi decisionali, Poste Italiane garantisce la sottoscrizione di complessivi 75 milioni di euro dell’aumento di capitale rimasti eventualmente inoptati, e Intesa Sanpaolo e Unicredit, garantiscono la sottoscrizione di massimo 100 milioni di euro dell’eventuale ulteriore inoptato. Air France-Klm capisce che il suo piano è fallito. Attraverso un portavoce spiega che “non ha ancora deciso se parteciperà o meno all’aumento di capitale di Alitalia, sebbene i suoi rappresentanti nel cda del vettore abbiano approvato il piano durante la riunione”. Alla fine, i transalpini alle prese con problemi di bilancio e pesanti ristrutturazioni da affrontare, passano la mano. Non sottoscrivono l’aumento di capitale e diluiscono la loro quota dal 25 a circa il 7%. La ricapitalizzazione porta invece nella compagine azionaria tre nuovi soci: Poste Italiane, Unicredit e Odissea di Antonio Percassi. A quel punto tutti gli azionisti si dicono “fiduciosi che la nuova compagine azionaria potrà raggiungere, grazie al nuovo piano industriale, l’obiettivo di salvaguardare un grande valore infrastrutturale per il sistema-Paese quale è Alitalia”. L’assemblea dei soci della compagnia di Via della Magliana ratifica le decisioni del cda e consente di fare la conta esatta delle quote di ciascun detentore di capitale. Tra queste spicca il ruolo di guida di Intesa Sanpaolo con il 20,59%, la conferma del ruolo di Colaninno con la sua Immsi (10,19%), l’ingresso di Poste (19,48%) e la discesa di Air France (al 7,08%) che conferma la presenza dei francesi in chiave di sola partnership commerciale. L’assise dei soci nomina poi il nuovo cda composto da 11 membri: Roberto Colaninno (presidente); Gabriele Del Torchio, Fabio Canè, Davide Maccagnani, Amedeo Nodari, Ranieri de Marchis, Pierre-François Riolacci, Paolo Luca Stanzani Ghedini, Mario Volpi, Antonino Turicchi, Alessandro Zurzolo. Il nuovo cda nomina poi Del Torchio amministratore delegato e vicepresidente. La prima parte è fatta. C’è la discontinuità richiesta e ci sono i soldi. Parte la marcia di avvicinamento a un nuovo partner industriale individuato in Etihad e, ad accelerare la conclusione del processo, ci pensa l’ex presidente del Consiglio, Enrico Letta, che va in missione negli Emirati, Qatar e Kuwait per sviluppare affari per il made in Italy. Resta un ultimo scoglio, quello delle riduzioni del costo del personale posto come precondizione dalla compagnia di Abu Dhabi. Nel mirino 1.900 addetti, considerati in eccesso, e un risparmio di 295 milioni. Ma la nuova Alitalia nasce sotto una buona stella. Anche questo dossier si chiude agevolmente. Prima l’azienda ritira le procedure per la Cassa integrazione a zero ore destinata a circa 300 dipendenti che avrebbero dovuto lasciare il perimetro aziendale. Poi trova l’accordo con i sindacati per ripartire il lavoro tra tutta l’organico attraverso i contratti di solidarietà. Etihad e Alitalia iniziano subito dopo la fase finale del processo di due diligence su un possibile investimento della compagnia degli Emirati in Alitalia. A confermarlo sono lo stesso James Hogan, presidente e chief executive di Etihad Airways, e Del Torchio che spiega: “Dopo la conclusione dell’aumento di capitale, l’ingresso di nuovi soci, la fiducia riconfermata dalle banche e in ultimo l’eliminazione del principale ostacolo per un accordo sindacale importante l’annuncio ci rende fiduciosi”. Qualche giorno dopo aggiunge: “Nel giro di qualche settimana dovremmo passare alla stesura del piano congiunto per i prossimi cinque anni: i gruppi di lavoro a Roma stanno operando in modo intenso”. Insomma è fatta. Manca la firma finale ma l’accordo e la volontà ci sono. Il partner trovato ha tutte le caratteristiche per rilanciare Alitalia. Dal suo hub, l’Abu Dhabi international airport, Etihad Airways serve 102 destinazioni per il trasporto passeggeri e merci in Medio Oriente, Africa, Europa, Asia, Australia e America con una flotta di 89 velivoli Airbus e Boeing. I suoi piani di sviluppo sono faraonici. La compagnia ha ordinato altri 220 aerei, tra cui 71 Boeing 787 Dreamliners, 25 Boeing 777-X, 62 Airbus A350 e 10 Airbus A380, il più grande aereo passeggeri del mondo. Le prospettive che si aprono ora sono rosee. Gli arabi vogliono far lavorare tutti, e soprattutto alle condizioni dei tempi in cui il tricolore viaggiava orgoglioso nei cieli di tutto il mondo. Questa almeno l’impressione raccolta nei colloqui tra il premier Letta e gli sceicchi durante la missione nel Golfo Persico. Gli emiri, insomma, lungi dal considerare l’ingresso nel capitale di Alitalia una mera operazione finanziaria sono al settimo cielo.
Etihad considera il vettore italiano non l’ennesima preda conquistata in Europa, ma un marchio da sviluppare in grande stile. E sul quale sono pronti a mettere tanti soldi. Materiale che da quelle parti non manca. Non solo sulle macchine ma anche sugli uomini. In particolare sui piloti e sul personale navigante. I primi, sarebbero quelli che la compagnia araba sta cercando in tutto il mondo con la bramosia di chi cerca l’oro. Negli hangar di Abu Dhabi ci sono tanti velivoli super moderni, nuovi di zecca, che non riescono a prendere il volo per la mancanza di equipaggi adeguatamente preparati. Proprio quelli che non mancano nell’organico di Alitalia e che a causa delle ristrettezze sono stati costretti nel tempo a rinunciare a status, prestigio e a parte dei loro stipendi. Certo i tempi dell’Alitalia dello “spreco” non torneranno. Ma una cosa sembra certa, stando agli sceicchi, i piloti torneranno almeno a divertirsi volando su destinazioni intercontinentali e in zone del mondo attualmente nemmeno sfiorate da Alitalia. Dunque principalmente l’ovest del mondo, ma anche il Sudamerica e l’Estremo Oriente, visto che il vettore arabo è molto forte nelle aree che dal Medio Oriente vanno verso il sud-est del mondo ma non ancora leader nelle altre. Su Alitalia gli arabi, almeno nelle intenzioni, vogliono investire per farla diventare una nuova “regina dei cieli”. Anche perché, oltre che di piloti, i loro velivoli devono essere riempiti di passeggeri. Troppo pochi sono ancora quelli dei loro mercati per aumentare il fattore di carico della flotta. Dunque innanzitutto si aspettano più visitatori nelle città costruite sulla sabbia del Golfo Persico: in programma voli diretti da nove città italiane verso gli Emirati. E ancora tutti gli altri che, in Italia, atterrano da altri Paesi. La Penisola diventerà una piattaforma verso il mondo. Dunque investimenti senza limiti anche sugli scali. Prima Fiumicino. Poi il nord Italia. E non solo Linate. Se va bene, gli arabi sono pronti a puntare anche su Malpensa. Altro che guerra tra i due scali: c’è la possibilità di farli crescere tutti e due. Così parlano gli sceicchi che, per questo, avrebbero messo in conto di acquistare il 25% di Aeroporti di Roma, la società che gestisce gli scali di Fiumicino e Ciampino. Atlantia, la holding di controllo smentisce. Ma il dossier è in grande movimento. Con più speranze. La prima è che l’Italia torni centrale nei flussi di traffico aereo del mondo, coinvolgendo pezzi del sistema infrastrutturale e logistico, finora guidati da logiche non coordinate. Non solo aeroporti, dunque, ma anche connessioni con l’Alta velocità ferroviaria, con le autostrade, con le linee di bus regionali e con lo spostamento delle merci, per la creazione di un polo unico del trasporto italiano. La seconda speranza è un auspicio con il sapore patriottico. E cioè che il tricolore torni a dominare i cieli di tutto il mondo come era una volta.
 
Filippo Caleri