L’Italia entrò in guerra il 24 maggio del 1915, dieci mesi dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale avvenuto nell’agosto del 1914. Il governo guidato da Salandra avviò le operazioni militari contro l’Austria-Ungheria, partecipando a un conflitto che avrebbe mutato il volto dell’Italia e quello dell’Europa.
Come ci è stato ricordato nelle scorse settimane, l’Italia entrò in guerra il 24 maggio del 1915, dieci mesi dopo lo scoppio della Prima guerra mondiale avvenuto nell’agosto del 1914. Quali furono i motivi di questo ritardo? Perché l’Italia alleata per più di trenta anni della Germania e dell’Austria-Ungheria non entrò al fianco dei suoi alleati? Per rispondere a queste domande, bisogna ritornare al 20 maggio 1882, quando l’Italia firmò il trattato della Triplice alleanza che la legava ai cosiddetti Imperi centrali. Questa alleanza, che aveva natura prettamente difensiva e non offensiva, durante il periodo crispino fu rafforzata dall’ammirazione che sia il presidente del consiglio, Francesco Crispi, sia il re, Umberto I, sia l’opinione pubblica italiana avevano nei confronti della cultura tedesca. E per cultura si intende non solo stima e considerazione per la filosofia, la scienza, l’arte, ecc., ma ammirazione per la potenza industriale della Germania, timore per la sua forza militare, apprezzamento per il modello politico tedesco che annoverava molti sostenitori anche in Italia. Questa situazione cominciò a mutare a partire dalla fine del periodo crispino (1896) e, soprattutto, con il nuovo secolo, quando il giovane Vittorio Emanuele III, succeduto al padre dopo il regicidio di Monza, diede una direzione nuova alla politica estera italiana. Il sovrano, infatti, non solo coltivava una passione irredentista che lo spingeva ad accogliere le istanze di coloro che rivendicavano le terre italiane soggette all’Austria-Ungheria, ma, anche per il matrimonio contratto con la regina del Montenegro Elena Petrovic-Njegos, pensava che una delle direttive di espansione geopolitica italiana fossero i Balcani; prospettiva che, inevitabilmente, metteva l’Italia in contrasto con la duplice monarchia. In tal modo, il sovrano cercò di riequilibrare la politica estera italiana, dapprima siglando un trattato di amicizia con la Francia (1902) e, successivamente, con la Russia (1909). Il che non vuol dire che l’Italia rinunciasse alla Triplice alleanza: solo che questa perse progressivamente la propria validità sostanziale, anche per l’atteggiamento progressivamente ostile dell’Austria-Ungheria che, dapprima, negò l’Università italiana a Innsbruck, poi coltivò l’idea di un attacco preventivo all’Italia in occasione del maremoto che distrusse Messina (1908) e, infine, annettendosi la Bosnia-Erzegovina (1908), senza prevedere compensi per l’Italia, come era previsto dall’art. 7 dell’Alleanza. Tutti questi atteggiamenti, compresa una certa frizione in occasione della guerra tra Italia e Impero ottomano (1911-12) per il possesso della Cirenaica-Tripolitania, fece sì che, malgrado il rinnovo dell’Alleanza nel 1912, la qualità dei rapporti all’interno della Triplice, soprattutto tra Italia e Austria-Ungheria, fosse ormai molto deteriorata. La Germania, poi, rinunciando a fare da intermediario, assecondò in tutto e per tutto il proprio alleato danubiano. Così, al momento dell’attentato di Sarajevo e fino allo scoppio del conflitto, l’Italia non solo venne tenuta all’oscuro delle principali decisioni dei suoi alleati, ma venne rigettato qualsiasi tentativo di accordo con l’Italia basato sul principio delle compensazioni che, per l’Italia, non poteva che riguardare il Trentino. La proclamazione della neutralità italiana avvenuta il 3 agosto 1914 non deve, dunque, sorprendere. A determinarla, oltre a tutti i motivi sovraesposti, contribuirono, poi, l’impreparazione militare italiana, aggravatasi dopo la guerra di Libia e accentuata dalla politica di tagli voluta da Giolitti e dal ministro della Guerra Spingardi, e un atteggiamento generale dell’opinione pubblica politicamente attiva che era fortemente ostile all’Austria-Ungheria e che chiedeva l’intervento a fianco delle potenze democratiche. Si aprì, così, un lungo dibattito all’interno del Paese tra coloro che volevano mantenere la neutralità (cattolici, liberali giolittiani e socialisti) e quanti invocavano l’entrata in guerra (i liberali legati al presidente del Consiglio Salandra, i radicali, i repubblicani, i nazionalisti e i socialrivoluzionari). Questo dibattito, che pure fu acceso e, a tratti, violento, non impedì al governo di portare avanti le trattative diplomatiche. Dapprima con l’Austria-Ungheria; constatata l’impossibilità di ottenere quei territori (Trento e Trieste) che l’Italia chiedeva e che le avrebbero consentito di completare il Risorgimento nazionale, i vertici politici e istituzionali italiani si rivolsero alla Triplice intesa (Francia, Inghilterra e Russia), siglando il 26 aprile 1915 il patto di Londra, con il quale l’Italia avrebbe ottenuto, in caso di vittoria, Trento, Trieste e gran parte della Dalmazia, soprattutto lungo la fascia costiera. Siglato il patto, il governo italiano denunciò il trattato della Triplice alleanza per quanto riguardava l’Austria-Ungheria. Proprio a partire da questo avvenimento, si assistette all’ultimo tentativo neutralista esperito da Giolitti e dalla diplomazia segreta germanica. In quello che fu definito il “radioso maggio”, si svolse un duro scontro politico tra neutralisti e interventisti, infiammati dall’oratoria del poeta Gabriele d’Annunzio. Tornato Giolitti a Roma, egli ebbe subito il consenso della maggioranza dei parlamentari liberali alla sua opzione neutralista, costringendo Salandra a dare le dimissioni. A quel punto, il re, che nell’ombra aveva sostenuto l’azione di Salandra e del ministro degli Esteri Sonnino e aveva ormai deciso di cogliere l’occasione storica per completare il Risorgimento nazionale, chiese a Giolitti di assumere la carica di presidente del Consiglio, precisando, però, che la sigla del patto di Londra lo impegnava personalmente e che, quindi, avrebbe abdicato in caso di denuncia del patto stesso. Di fronte al timore del vuoto istituzionale che si sarebbe creato, Giolitti rifiutò l’incarico, come lo rifiutarono gli altri parlamentari consultati dal re. Alla fine, il sovrano ridiede l’incarico a Salandra che, presentatosi alla Camera, ottenne un successo inaspettato fino a pochi giorni prima. Rafforzato da tale voto di fiducia, il governo si accinse, dunque, a iniziare le operazioni militari contro l’Austria-Ungheria e a entrare in una guerra che avrebbe mutato il volto dell’Italia e quello dell’Europa.