L’Aeronautica militare ha partecipato attivamente alla “Coalizione dei volenterosi” nell’ambito dell’operazione Odyssey dawn. Successivamente al passaggio del comando delle operazioni militari all’Alleanza atlantica, avvenuto il 31 marzo 2011, l’Am ha mantenuto e rinforzato la propria partecipazione, contribuendo con i suoi velivoli e sette basi aeree al successo dell’operazione Nato Unified protector. Le operazioni condotte nel 2011 sui cieli libici – cui hanno preso parte personale e mezzi aerei di 16 nazioni – hanno rappresentato per l’Aeronautica l’impegno più imponente dal Secondo conflitto mondiale e anche, per certi aspetti una novità, come ci spiega il generale Claudio Gabellini, targeting division chief dell’operazione Unified protector
Generale che ruolo ha avuto nell’operazione?
Sono stato impiegato come responsabile della divisione targeting, che al momento del mio arrivo a Bagnoli non esisteva. Alla Nato, dopo Odyssey dawn, serviva un’alternativa rapida che testimoniasse il progressivo disimpegno americano e la struttura di Bagnoli, da dove si è poi materialmente gestito il conflitto, si è rivelata ideale per l’Alleanza. Si è trattato di una novità epocale per l’Aeronautica infatti, sebbene in passato fossero già stati offerti assetti e basi italiane a coalizioni internazionali, mai nessun ufficiale italiano aveva ricoperto una posizione del genere nell’ambito di un comando responsabile di un’operazione reale.
Perché si è resa necessaria una divisione targeting?
Perché la Nato è stata trascinata nell’operazione quasi inaspettatamente, pertanto la sua struttura tradizionale non sarebbe stata in grado di avviare e gestire questa operazione di tipo esclusivamente aereo. Inoltre la creazione della divisione targeting è stata dettata dalla nuova dimensione e dalle nuove “regole” dei conflitti moderni in termini di scelta e valutazione degli obiettivi. Fino alla fine della Guerra fredda infatti, questo non si era reso necessario, ma dai Balcani in poi l’importanza degli aspetti legati all’individuazione e discriminazione del nemico, quelli legati agli effetti collaterali e alle vittime civili ha preso sempre più piede, determinando un radicale cambiamento nel modo di combattere. Si è passati da un concetto di nemico esteso, inteso come obiettivo legalmente perseguibile sotto qualsiasi forma esso si presenti, a un altissimo grado di discriminazione, non solo tra chi è nemico e chi non lo è – cosa sempre più difficile da stabilire –, ma anche una volta individuato, sulle modalità di attacco, assolutamente subordinato ad un sempre più complesso sistema di regole, vincoli e limiti. In altre parole, nei conflitti moderni essere considerato “nemico” non è più sufficiente per essere attaccati. Questo continuo lavoro di individuazione degli obiettivi necessari, legali e quindi passibili di attacchi cinetici è stata la principale attività svolta dalla mia divisione, inserita nel comando Nato di Napoli.
La catena di comando e controllo ha funzionato bene?
Da questo punto di vista problemi non ce ne sono stati, nonostante gli italiani vengano di solito trascinati dentro un’impresa soltanto all’ultimo minuto, dopo il precipitare politico degli eventi e a causa di un processo decisionale spesso troppo lungo. L’operazione sotto il profilo gestionale si è svolta bene, con la formalizzazione da parte del Paese di un certo pacchetto di forze, offerto poi alla Nato con i relativi caveat. Inoltre la supervisione “parallela” operata dalla nostra struttura di Bagnoli, con a capo un altro ufficiale dell’Am, incaricato di sorvegliare il rispetto delle regole nazionali, ha evitato scollamenti potenzialmente pericolosi dal mandato politico. L’Italia è stata il terzo contributore per missioni cinetiche (di attacco, ndr) all’intera operazione. Tolti gli americani (principalmente fornitori di missioni di supporto, ndr), dopo gli inglesi e i francesi ci siamo stati noi. In Libia abbiamo svolto un ruolo da protagonisti, anche per quel che abbiamo offerto in termini infrastrutturali. Faccio solo un esempio: durante gli oltre sei mesi di operazioni la coalizione ha dovuto mettere in volo ogni giorno più di un milione di litri di carburante, pur facendo operare gran parte degli assetti da basi italiane. È evidente che se l’Italia non avesse concesso le proprie basi, l’operazione non sarebbe stata possibile.
Come si è comportata l’Italia nelle azioni cinetiche?
Al di là dell’accuratezza nelle azioni di bombardamento (oltre il 93%), nessun equipaggio italiano è mai stato coinvolto in episodi “dubbi”. Con circa 7.800 armi di precisione sganciate su quasi 6mila obiettivi, la Corte internazionale dell’Aja ha solo 4 o 5 casi dubbi riferiti all’operato della coalizione ancora sotto investigazione. Posso quindi tranquillamente affermare che un’operazione del genere non ha precedenti. Il lavoro dei nostri equipaggi è stato ottimo e questo grazie al livello di addestramento raggiunto, unito a un’assoluta serenità di giudizio. La capacità di non “fare danni” in un contesto del genere deriva infatti principalmente da due elementi: il buon senso applicato a situazioni complicate e l’efficacia dell’addestramento ricevuto. Se l’opinione pubblica non ammette errori da parte dei nostri equipaggi, solo un continuo addestramento li mette nella migliore condizione di ridurre al minimo l’errore.
Qual è stata la parte più difficile?
Riuscire a conseguire un effettivo vantaggio sul terreno rispettando il mandato dell’Onu, che era quello di proteggere i civili da attacchi o dalla minaccia di questi, evitando vittime civili, danni collaterali e soprattutto ogni obiettivo che non fosse strettamente collegato alla missione da compiere. In quest’ottica non potevamo attaccare obiettivi che potessero essere di qualche uso ai civili, come ponti, centrali elettriche o di approvvigionamento, ecc. che solitamente costituiscono la base di una campagna aerea “normale” e mirata alla disarticolazione del sistema avversario. Quando ad esempio è stata individuata a Tripoli la base della 32ª brigata meccanizzata di Gheddafi, che si occupava di “fare pulizia” nei centri abitati, ci sono state enormi discussioni sull’opportunità di bombardare la caserma dove il personale alloggiava di notte. Di notte, infatti, la brigata non rappresentava una minaccia ai civili e quindi non era un target in accordo al mandato dell’Onu. In più Gheddafi, sapendo che la Nato prima o poi avrebbe colpito i suoi centri di comando e controllo, non ha esitato a metterli anche dentro edifici civili, rendendo ancora più complesso il processo di analisi e di attacco. Altra difficoltà, l’esigua consistenza delle forze in rapporto all’estensione del territorio.
Come avete fatto a valutare il vantaggio militare senza truppe sul terreno?
Con i nostri mezzi. Abbiamo usato tutte le informazioni a nostra disposizione per capire se quello che credevamo fosse effettivamente la verità. Personalmente ho passato mesi senza dormire perché avrei voluto avere più evidenze e più certezza sui target individuati. Su più di qualche obiettivo, non essendo convinto, ho dovuto dire no. Sicuramente sarebbe stato di enorme aiuto un mandato diverso, più incisivo, che permettesse di operare in maniera più efficace e rapida. Per un mandato che ha come obiettivo quello di proteggere la popolazione, sei mesi e mezzo sono un tempo inaccettabile.
Da un punto di vista mediatico come giudica la campagna di Libia?
Oggi conta quello che si fa percepire alla gente. Se vinci la battaglia mediatica hai vinto la guerra. Gheddafi l’aveva capito e all’inizio dell’operazione la sua contro informazione ha dato filo da torcere alla coalizione. Le cose sono cambiate con la decisione della Nato di dare un’informazione più aggressiva, ma soprattutto più tempestiva, attraverso la diffusione di comunicati ufficiali solo mezz’ora dopo gli attacchi, indicando zone, tipi di obiettivi attaccati e risultati conseguiti.