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Quali sono i numeri e le dinamiche del terrorismo, la grande minaccia non convenzionale? Dal 2013 al 2014 è aumentato del 18% a livello globale il numero annuo delle vittime del terrorismo: i Paesi con almeno un cittadino morto sono passati da 59 a 67 ed è più che raddoppiato il numero degli Stati con oltre 500 morti l’anno. La responsabilità maggiore è del gruppo Boko Haram, con 6.600 vittime, e dello Stato islamico (Isis), con 6.100: i due soggetti insieme sono la causa del il 51% delle vittime di terrorismo del 2014.
Questi sono i dati che emergono dal rapporto Global terrorism index 2015, pubblicato dall’Institute for economics and peace di Sydney e presentato martedì a Roma da Steve Killelea, presidente del think tank australiano, in un incontro organizzato con l’Ispi a cui hanno preso parte anche il sottosegretario Mario Giro e il deputato Andrea Manciulli, insieme a Dario Matassa, funzionario della Presidenza del consiglio, e alla ricercatrice Leena Hoffman.
“Il rapporto evidenzia un legame tra terrorismo e failed states: l’88% degli attacchi terroristici avvengono in Paesi coinvolti in conflitti, soprattutto di natura interna”, ha spiegato Killelea.  E infatti Iraq, Nigeria, Afghanistan, Pakistan e Siria ammontano da soli al 78% delle vittime nel 2014. “Al di là dello shock degli attentati di Parigi, è importante tenere presente che il numero delle vittime in Occidente è minimo rispetto ad altre regioni del mondo. Inoltre, l’80% dei morti per azioni terroristiche in Europa non è causato da formazioni radicali islamiche, ma da gruppi estremisti di destra”.
Il sottosegretario agli Affari esteri Mario Giro ha portato la voce di un governo occidentale: “L’emergenza terrorismo in Europa di oggi è collegata alle filiere degli anni ’90, dunque un fenomeno pluridecennale per i Paesi dell’Unione. Questo significa che è imprescindibile l’istituzione di un’intelligence europea”. Ha concordato sulla necessità di collaborare Andrea Manciulli, presidente della delegazione italiana all’Assemblea parlamentare della Nato: “Serve un salto di qualità nei rapporti fra gli Stati: una risposta nostra, ma anche del mondo musulmano. Questa sfida si può vincere solo se si fa un passo in avanti rispetto agli interessi nazionali, per mettere al centro l’interesse comune”.
“Chi dall’Europa o da altre aree del mondo sceglie di impegnarsi a sostegno dell’Isis lo fa per scelta individuale, in una miniaturizzazione del terrorismo che è tipica della società moderna”, ha aggiunto Dario Matassa, rappresentante del Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (Dis) presso presidenza del Consiglio dei ministri. “La pubblicizzazione del marchio Isis verso potenziali nuove reclute non è un fenomeno nuovo per gli addetti ai lavori. Siamo infatti alla terza ondata di foreign fighters in pochi decenni: la prima scaturì il conflitto bosniaco, la seconda fu generata dagli scontri in Afghanistan e in Iraq, mentre oggi la calamita è la guerra civile in Siria”.
Ha sottolineato invece lo sforzo culturale necessario a sconfiggere il terrorismo Leena Hoffman, ricercatrice della Chatham House di Londra. Il caso esemplare è l’Africa occidentale, principale teatro delle azioni di Boko Haram: “La violenza dei terroristi stride con la lunga storia di tolleranza e relazioni sociali costruttive tra le diverse comunità religiose della Nigeria, un Paese dove il nord è musulmano e il sud cristiano. L’ideologia violenta prolifera tra le comunità più povere, che si sentono abbandonate dallo Stato. Da quest’anno Nigeria, Ciad e Camerun hanno costituito una joint task force militare che ha ridotto il terreno controllato da Boko Haram: l’augurio è che questa operatività congiunta possa essere percepita dalle popolazioni locali come un impegno concreto delle autorità pubbliche”.