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L’affastellarsi di paurose crisi umanitarie e militari attorno a noi ci deve far riconsiderare alcuni dei miti che hanno alimentato le illusioni dei decenni passati per fronteggiare, nel lungo periodo, difficoltà mai sperimentate dalle generazioni del dopoguerra. In quest’ottica, potrebbero essere motivo di riflessione, tra molte altre, le seguenti considerazioni che riporto in maniera randomica. Me ne scuso.
Prima considerazione. L’Italia continuerà a galleggiare nel bel mezzo del Mediterraneo per qualche altra era geologica, senza speranza alcuna di essere trascinata dalla deriva in pieno Atlantico attraverso le Colonne d’Ercole. Potremo rinunciare alla nostra lingua, trasformare in parcheggi le nostre piazze monumentali, abbandonare la dieta mediterranea per il “fast food”, applicare un’ancor più fantasiosa “creatività” al concetto di famiglia, ma rimarremo sempre qui. Nel profondo sud Europa.
La situazione in nord Africa, quindi, è certamente un problema dei nord africani, ma rappresenterà per sempre un problema italiano, prima (molto prima) che francese, statunitense, britannico o tedesco. E’ un problema italiano perché in Italia sbarcano i migranti che da quell’area partono; perché da quelle coste arrivano rifornimenti energetici fondamentali per il nostro “stile di vita” (anche se vivere “alla grande” non è un diritto insindacabile); ed è un problema italiano perché vi si stanno cumulando tensioni e conflitti che non potranno non interessare, se non controllati, il nostro stesso territorio, prima o poi.
Seconda considerazione. Siamo pochi, vecchi e con la pancetta, in naturale soggezione di quota nei confronti dei tanti, giovani e affamati che premono da sud, per ora con le buone. Non hanno bisogno come noi di aggrapparsi alle bestemmie illustrate di Charlie Hebdò per dare appoggio ad una traballante identità e guardano con fiduciosa speranza un futuro che a noi pare sempre più tetro. Dobbiamo cambiare, nel profondo, promuovendo politiche che tornino a farci crescere e che scoraggino la diserzione dei nostri migliori “cervelli”, in fuga verso altri lidi. Il futuro è dei giovani, perbacco!
Terza considerazione. A prescindere da ogni approccio sterilmente reattivo che ci porta a guardare con sospetto e paura, dal nostro balconcino occidentale, quello che avviene ad est e a sud delle nostre coste, tutto il bacino del Mare Nostrum attiene alla sfera dei nostri interessi e non solo alle nostre esigenze di sicurezza. Insomma, perseverare in quell’atteggiamento spocchiosamente “razzista” col quale spesso ci smarchiamo da quello che ci circonda, troppo arretrato ed oscurantista per le nostre fini papille gustative, non potrà che marginalizzarci sempre più, rendendoci vulnerabili delle iniziative e della spregiudicatezza altrui.
Quarta considerazione. Se per comunità si intende un insieme di individui che condividono interessi comuni, la cosiddetta Comunità Internazionale, sulla quale tradizionalmente facciamo tanto conto, semplicemente non esiste. Quanto ai valori, neppure il significato di termini come pace e stabilità sembra unanimemente condiviso, almeno considerando la storia degli ultimi anni. Non si vedevano interessi condivisi (soprattutto con noi) quando venne accesa la miccia dell’implosione libica, causando quel prevedibilissimo pasticcio che ora desta tante preoccupazioni; non esistevano e non esistono visioni comuni sulle crisi in Siria e Irak, dove più che la sicurezza delle popolazioni e la sopravvivenza delle élite locali pare che siano i progetti dei più potenti competitors regionali e mondiali al centro dello scontro, né si può dire che esistano identità di vedute con riferimento alla crisi russo-ucraina che così bene sta facendo alla nostra economia e alla solidità continentale. Vent’anni fa, infine, non sussistevano interessi comuni nei Balcani ridotti, anche per l’ingenuo provincialismo dei paesi più prossimi come il nostro a fronte dell’attivismo di alcuni dei più lontani, ad un’arlecchinata di staterelli poveri di territorio e di risorse, per lo più nemici tra di loro, oggi testimoni inerti e impotenti di un flusso migratorio epocale che li attraversa e che sta mettendo alla prova la tenuta dell’Europa.
Quinta considerazione. Tra gli strumenti per far fronte a questa situazione compaiono anche le Forze Armate che, da quando è finita la Guerra Fredda, dovrebbero essere tornate al loro ruolo fondamentale di strumenti di politica estera e di affermazione nazionale, e non semplicemente di difesa (o di sicurezza per i palati più esigenti).
L’Italia può vantare, in tale contesto, una continua e fattiva presenza delle nostre unità militari nelle aree più delicate di questo spicchio di mondo, con particolare riferimento a Libano, Irak, Israele, Kuwait, Palestina, Kosovo, Sinai, ma anche Somalia e naturalmente Afghanistan, per non parlare del Mar Mediterraneo. Ovunque, i nostri uomini si sono guadagnati una riconoscenza e credibilità che con una maggiore intraprendenza da parte della nostra imprenditoria ed una più significativa ambizione politica potrebbero portare molti vantaggi per noi e per quei paesi stessi. L’Italia non è una sconosciuta in quelle parti del più o meno vicino Oriente e dell’ex Europa dell’Est, e lo sfruttamento dei sacrifici fatti da molti soldati in decenni di impegno sarebbe doveroso, non cinico.
Sesta considerazione. E’ illusoria la speranza di delegare ad altri la tutela dei nostri interessi soprattutto quando presupponga lo sgradevole impiego delle armi. In altre parole, ogni appello ad un “esercito europeo” o a “forze armate dell’ONU” che, pagando in buona parte con il sangue e con risorse finanziarie altrui, si facciano carico dei nostri interessi o anche della nostra sicurezza è destinato a cadere nel vuoto. Senza politica estera (estera) comune, non sono possibili Forze Armate comuni. E le politiche estere non saranno comuni fino a quando comuni non saranno gli interessi. Punto.p
Quindi, è meglio rassegnarsi al fastidio delle spese militari, facendo maggior conto su noi stessi.
Ultima considerazione. L’Italia ha eletto a proprio nemico ideale una supposta vocazione criminale congenita nazionale, contro la quale mobilitare le coscienze e scatenare a comando l’indignazione popolare. Ammesso e non concesso (personalmente non lo concedo) che sia anche solo parzialmente vero, ciò non è in ogni caso sufficiente a mettere in secondo piano i rischi che ci derivano soprattutto dalla nostra esposizione geografica e dall’appetibilità delle nostre risorse. Pensare, quindi, di affrontare i nostri problemi semplicemente rinforzando la sicurezza della saracinesca del negozio di famiglia con leggi severe e una giusta disponibilità di tutori delle stesse, come spesso si è fatto per non incorrere nelle rampogne dei perennemente imbronciati guardiani di una autoreferenziale correttezza politico-antimilitarista nazionale, è ingenuo e suicida.
Anche il “soft power”, per non tramutarsi semplicemente in “no power” nel momento delle crisi vere, infatti, deve appoggiarsi su un armonico bilanciamento tra forza politica, diplomatica, economica, giudiziaria, culturale e, appunto, militare. E quest’ultima costa.
Ma chi non vuole portare le proprie armi, dice il proverbio, prima o poi dovrà portare quelle di qualcun altro. E, con le armi, porterà i suoi (dell’altro) interessi. Ci è già successo.