Il piano di Trump e Mattis contro lo Stato Islamico

Di Emanuele Rossi

Uno dei primi leader internazionali a chiamare il presidente americano Donald Trump poco dopo la vittoria elettorale di novembre è stato il premier iracheno Haider al Abadi. Il capo del governo di Baghdad ha cercato Washington per una ragione pragmatica: senza gli americani non ci sarebbe una guerra allo Stato islamico, e l’Iraq è il Paese che più ha subito (per origini e per diffusione) le azioni del gruppo jihadista guidato da Abu Bakr al Baghdadi. Trump ha risposto promettendo maggior supporto, dichiarò Abadi in un’intervista all’Associated Press – in realtà il presidente ha già annunciato un sostegno condizionato allo svincolo iracheno dalle influenze iraniane (questione complessa).

Per il momento l’attività anti terrorismo (la lotta allo Stato islamico viene inquadrata ufficialmente in quest’ottica dal Pentagono, sebbene si vada oltre le semplici operazioni e si combatta una vera e propria guerra) è stata guidata dalla Casa Bianca di Barack Obama, ma già Trump ha fissato un punto di partenza. La continuità, a dispetto di varie dichiarazioni precedenti, ha nome e cognome: Brett McGurk, l’inviato speciale dello Studio Ovale obamiano per combattere l’Isis resterà al suo posto. McGurk è nell’elenco dei cinquanta confermati in ruoli di interesse primario comunicato giovedì dal nuovo portavoce della Casa Bianca Sean Spicer: insieme, per esempio, c’è anche il direttore del National Counterterrorism Center Nick Rasmussen e Robert Work, vice segretario alla Difesa.

C’è una polemica di fondo che vale la pena citare: McGurk è il simbolo della strategia di Obama per combattere il terrorismo, accezione semplificata lo Stato islamico. Una strategia molto criticata dagli interventisti, ma apprezzata dai più pragmatici; mentre molti falchi del suo partito si muovono nella prima categoria, Trump è più nella seconda, però non perde occasione per richiamare quelli che per lui sono stati gli errori di Obama o ancora peggio gli orrori, come quella volta che definì il presidente americano “il fondatore dell’Isis”, “letteralmente” specificò, durante la campagna elettorale.

Per quanto noto Trump vuole aumentare l’impegno militare americano contro l’IS lavorando insieme alla Russia: ci sono già stati tentativi di collaborazione in passato, sempre falliti, ma la maggiore apertura che la nuova amministrazione ha espresso verso Mosca potrebbe essere d’aiuto; se non fosse che i russi sono molto poco impegnati nella guerra al Califfo, combattono poco in Siria (dove, dopo suonanti festeggiamenti hanno perso l’unica città liberata dall’occupazione baghdadista, Palmira) e per niente in Iraq.

La scorsa settimana la CNN ha rivelato che funzionari anonimi del Pentagono hanno parlato di un piano già preparato per proporre a Trump un aumento dell’aggressività contro lo Stato islamico: è probabilmente anche un tentativo per convincere il presidente a non cedere alle lusinghe moscovite e a muovere gli Stati Uniti in modo maggioritario; ma è anche un portarsi avanti col lavoro, visto che durante la campagna il repubblicano aveva annunciato che avrebbe dato “30 giorni di tempo” ai suoi generali “per ricevere sul tavolo un piano per sconfiggere l’Isis”.

Di questo aumento dell’aggressività negli ultimi giorni si sono viste diverse prove: nella notte tra mercoledì e giovedì due bombardieri strategici B2 sono partiti addirittura da una base in Missouri per colpire quattro campi di addestramento dell’Isis in Libia, per esempio. Oppure, è da notare come sia notevolmente aumentato nelle ultime settimane l’impegno che gli americani hanno messo nel colpire i leader della fazione (ex) qaedista all’interno del conflitto siriano, quella che è tra gli obiettivi anche russi, ma che Mosca di fatto non bersaglia con la stessa efficacia. O ancora: l’8 gennaio una squadra della Delta Force ha cercato di catturare vivo un leader del Califfato legato al settore economico e con stretti contatti con Baghdadi (è stato poi ucciso durante l’operazione avvenuta in Siria). In più: da un paio di mesi si susseguono azioni martellanti contro i camion che trasportano i carichi clandestini del petrolio estratto dal Califfo; proprio mentre il Wall Street Journal racconta di come il governo filo-russo di Bashar el Assad abbia aumentato le compravendite del greggio baghdadista (non è un assurdità, è la guerra: Assad compra il petrolio da chi lo vorrebbe morto perché ne ha necessità).

Dice la CNN che le opzioni che gli strateghi del Pentagono metteranno sul tavolo di Trump, e che saranno valutate dal nuovo capo del dipartimento James Mattis (e dal vecchio, confermato per ora, capo di stato maggiore Joseph Dunford) potrebbero portarsi dietro l’aumento del rischi per i soldati americani: e dunque si può supporre l’aumento del coinvolgimento a terra. Già messo in prova anche questo (per riprendere anche la questione Abadi): almeno 40 soldati delle forze speciali si muoverebbero “a livello di battaglione” (per rubare una definizione a Guido Olimpio del CorSera) al fianco delle truppe irachene a Mosul, centro della guerra all’IS, nella casa del Califfo.

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