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Che il nuovo presidente americano Donald Trump portasse con sé posizioni e sensibilità ben diverse dal precedente, era emerso con chiarezza sin dalla campagna elettorale, e le sue prime decisioni, una volta insediatosi alla Casa Bianca, non hanno disatteso le aspettative. Il ruolo degli Usa declinato nelle varie sfaccettature dello slogan “America first”, sta trovando conferma in tutte le linee politiche dell’amministrazione, lasciando presagire un energico riposizionamento strategico degli Stati Uniti nel mondo multipolare dei prossimi decenni. E anche il settore spaziale non potrà restare immune da questo nuovo paradigma americano, perché come abbiamo spesso scritto in articoli precedenti, le attività spaziali hanno sempre una valenza strategica. Se cambia la geopolitica degli Usa, ad esempio con la dichiarata sfiducia nella Nato unita alla richiesta agli europei di finanziarne le spese, o rimodulando il rapporto con la Russia, con Israele e soprattutto con il mondo arabo (vedasi la recente visita di Trump a Riad con la vendita di oltre 100 miliardi di dollari di armamenti), o ancora dando concretezza alle nette posizioni espresse in materia di commercio internazionale con Cina e Europa, non si vede perché il ruolo degli Stati Uniti nello spazio non debba nel tempo evolvere in conseguenza. Facciamo un esempio.
La Stazione spaziale internazionale (Iss), pensata e progettata negli anni 90 come elemento di superiorità tecnologica americana nell’esplorazione spaziale umana, e nel contempo come programma di cooperazione pacifica di Stati sino a quel momento in guerra fra loro, potrebbe oggi essere seriamente ripensata. Già da un po’, la stessa Nasa manifesta perplessità sugli elevati costi di mantenimento dell’Iss vis-a-vis dei suoi ritorni economici e scientifici (vedasi Airpress di marzo 2016 “Gli interrogativi sulla Iss”, e Airpress di marzo 2015 “Quale futuro per la Iss?”). Anche la posizione dell’agenzia russa Roscosmos, il secondo fondamentale partner, rivela tatticismi da non sottovalutare. Il capo della Roscosmos, Igor Komarov, dichiara da un lato di essere disponibile a discutere su una estensione dell’Iss al 2028, e dall’altro di valutare la possibilità di staccare i moduli russi per farne un avamposto autonomo o “attraccato” altrove. Non può sfuggire quindi la prospettiva di un possibile cambio di paradigma strategico sull’Iss che, ricordiamolo, costa alla Nasa circa 3,5 miliardi di dollari all’anno (di cui circa il 15% per acquistare “passaggi” dai russi sulla Soyuz), e le cui proiezioni di costo al 2024 raggiungono i 4 miliardi di dollari (secondo il Rapporto elaborato nel 2014 dall’ispettore generale della Nasa). Non si tratta solo di un problema di costo, dato che in gioco c’è anche l’immagine degli Stati Uniti, in patria e nel mondo. Nell’immaginario collettivo è difficile pensare che non ci siano più nello spazio astronauti con la bandiera a stelle e strisce, ma per ovviare a ciò è probabilmente arrivato il momento di lasciar fare ai cosiddetti privati, cioè agli imprenditori come Elon Musk che, beneficiando degli investimenti pregressi del governo, oggi finanziano attività spaziali, anche manned, con dichiarati obiettivi commerciali (vedasi Airpress di aprile 2017 “I rischi di un grande fratello spaziale”).
In fondo, Donald Trump è un imprenditore con una visione decisamente mercantilistica del mondo; un mercantilismo che, diffuso su scala globale, va strategicamente difeso e protetto. È di marzo infatti la sua proposta al Congresso di aumentare la spesa militare di 54 miliardi di dollari. Non sappiamo quanto, ma parte di questo budget sarà senz’altro utilizzato anche per il mantenimento e lo sviluppo di assetti spaziali. In sostanza, il paradigma degli ultimi 50 anni che vedeva gli Stati Uniti fare da leader in programmi di cooperazione, potrebbe anche nel settore spaziale lasciare il posto a un “America first”, e quindi a un cambio di passo tecnologico e commerciale che veda sia il governo federale – Pentagono in primis – che l’imprenditoria privata, generare innovazione in grado di assicurare la superiorità statunitense. La Nasa, in questa visione, manterrebbe il suo ruolo scientifico, realizzando sonde interplanetarie o progettando futuribili missioni lunari o marziane, quelle sì magari in parziale cooperazione internazionale. Una prova di ciò si è avuta lo scorso 21 marzo, quando Trump ha firmato la richiesta di bilancio della Nasa dichiarando: “Con questa proposta rinnoviamo il nostro impegno per le missioni di esplorazione e di scoperta della Nasa, continuando una tradizione antica come l’umanità, cioè osservare i cieli con meraviglia e curiosità”. E infatti il bilancio della Nasa è stato ridotto di oltre mezzo miliardo di dollari, tagliando le missioni di Earth science e climate change, che guardavano appunto alla Terra e non alle stelle. A medio-lungo termine, quanto potrebbero resistere i 4 miliardi di dollari all’anno per l’Iss, il più grande progetto di cooperazione internazionale, nell’ottica di un presidente che sembra considerare la cooperazione, senza diretti vantaggi commerciali per gli Usa, più un vincolo che un’opportunità?
Alla luce di ciò, l’idea di vedere solamente una space station di Pechino intorno alla Terra nel 2024-2030 potrebbe essere concreta, dato che nel frattempo gli Stati Uniti potrebbero aver sviluppato nuovi assetti spaziali quali: dei sistemi di lancio – li chiameremo ad esempio Falcon 10 – completamente riutilizzabili in grado di decollare ogni settimana da tre o quattro basi diverse negli Usa, per trasportare satelliti commerciali di fabbricazione americana venduti in tutto il mondo; o anche delle navette spaziali unmanned – le chiameremo Us Air Force Space drone X-38 – in grado manovrare autonomamente intorno alla Terra, e quindi anche nei pressi della suddetta Stazione; oppure delle spaziose astronavi – le chiameremo Heavy Dragon – in grado di ospitare per qualche settimana astronauti americani intorno alla Terra, o finanche intorno alla Luna, per poi ritornare a Terra ed essere riutilizzate. Insomma, quello che è stato finora lo schema delle attività spaziali del mondo bipolare potrebbe evolvere più rapidamente di quanto ci aspettiamo. I velocissimi mutamenti sociologici e tecnologici che in breve tempo stanno cambiando le nostre abitudini e il nostro stile di vita, potrebbe aver già raggiunto quel punto critico che, come scrive Malcom Gladwell nel suo bestseller intitolato The Tipping Point, è quel livello oltre il quale un cambiamento diviene inarrestabile. Una wake-up call per l’Europa: avviare relazioni con la Cina per ospitare astronauti europei sulla futura Stazione può avere aspetti politici sicuramente importanti da perseguire, ma tecnologicamente e strategicamente potrebbe celare in sé un potenziale ritorno agli anni 90. E non si tratterebbe di un ritorno al futuro.