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Perché quando si parla di bilancio della Difesa spariscono gli usuali confronti con gli altri Paesi europei? Forse perché da decenni la percentuale del Pil italiano destinato al settore è più che in calo. La funzione difesa nel 2012 è costata all’Italia 13,6 miliardi, cioè meno della metà di Francia o Germania e poco più di un terzo del Regno Unito
Caro Matteo, ti scrivo per parlarti di difesa. Un tema cruciale per l’Italia, ma che nella nostra infinita campagna elettorale si impiglia spesso nella rete dei luoghi comuni, della demagogia e del populismo – l’antipolitica, insomma, al posto della buona politica. (Mi permetto di darti del tu – anche se non ci siamo mai incontrati – come si fa tra capi Scout, sia pure di città ed età diverse). È molto probabile che presto, da segretario del partito o capo del governo, tu debba occuparti di sicurezza dell’Europa, il nostro ruolo internazionale, la nostra base tecnologica e la politica industriale. Su questi punti sinora ti ho sentito solo accennare polemicamente a “22 miliardi per la difesa” e “F-35”. Mi è parso marketing politico, forse rivolto alla sinistra-sinistra che nutre più dubbi sulle tue posizioni politiche, ma senz’altro slegato dal ragionamento complessivo. Credo che i punti di partenza siano due. Il primo è che la sicurezza dei propri cittadini e la difesa degli interessi nazionali sono funzioni fondamentali degli Stati; il secondo è che su questi temi c’è un pregiudizio che, come tutti gli altri, si fonda soprattutto sulla non conoscenza dei fatti. Perché quando si parla di bilancio della difesa spariscono gli usuali confronti con gli altri Paesi europei? Forse perché da decenni la percentuale del Pil italiano destinato alla difesa è non solo in calo (1990-94: 2%; 2005-9: 1,6%; 2010: 1,4%), ma anche inferiore alla media Nato (rispettivamente 2,5% – 1,8 % – 1,7%). E anche quei 22 miliardi sono in realtà molti meno. La funzione difesa (cioè i compiti specifici delle Forze armate e della struttura ministeriale) nel 2012 è costata all’Italia 13,6 miliardi, cioè meno della metà di Francia o Germania e poco più di un terzo del Regno Unito. (La differenza tra 22 e 13,6 va ai Carabinieri per i com- piti di polizia). La riduzione dei bilanci si è già tradotta in pesanti tagli alla struttura. Vent’anni fa l’Aeronautica militare contava oltre 90mila uomini, molti dei quali di leva. Oggi sono 42mila persone (tra cui molte donne), tutti volontari; nel 2024 saranno 34mila. Conosci altre pubbliche amministrazioni ridotte a un terzo, senza mai interrompere il servizio? Nelle operazioni internazionali i nostri militari apportano innanzitutto la cultura italiana del dialogo, molto diversa dall’ormai proverbiale schematismo degli americani. Per svolgere questo ruolo non basta però essere presenti: bisogna contare, e per farlo si deve essere relevant, attraverso preparazione e dotazioni allineate a quelle dei propri alleati. Servono, insomma, addestramento e tecnologia. Invece, oggi l’Italia spende soprattutto in personale, la cui incidenza sulla funzione difesa negli ultimi cinque anni è salita dal 61 al 70,6%, mentre le spese di esercizio crollavano dal 16,3 all’11,2% e quelle d’investimento dal 22,2 al 18,2%. Se si volesse fare demagogia, si potrebbe dire che rischia- mo di tornare a quando i soldati andavano in Russia o in Grecia con le scarpe di cartone. La realtà è più complessa, perché oggi le operazioni militari non si fanno più con “l’om, el mul, el fusil e ’l canon” di badogliana memoria, ma con la tecnologia. Tagliare esercizio e investimento significa rendere improduttivo il personale e danneggiare l’economia italiana. L’industria della difesa – che non produce “cannoni” ma materiali compositi, elettronica avanzata, logistica – è un presidio tecnologico sempre più duale, con elevati livelli di investimento in ricerca e sviluppo, personale ad alta scolarizzazione ed elevata specializzazione, programmi di lungo termine, forti quote di esportazione, continuo confronto con la realtà internazionale. Senza dimenticare che le considerazioni di sicurezza rendono di fatto impossibile delocalizzare le tecnologie proprietarie. Nell’attuale fase storica, in cui la finanza prevale sull’industria e l’Italia è sempre più a rischio di deindustrializzazione, sono caratteristiche preziose, prima ancora che rare. Tecnologia, competitività, sovranità, occupazione, innovazione: il settore della difesa e sicurezza incide direttamente su tutto questo, con un valore al quale l’Italia non potrebbe rinunciare senza un ulteriore declassamento sui tavoli internazionali che sempre più decidono il nostro destino. Tavoli sui quali un razzo Vega conta più di scarpe firmate o divani artigianali, con tutto il rispetto. Gli altri Paesi europei lo sanno e aspettano solo di poter acquistare a prezzo di saldo le nostre ultime nicchie di eccellenza, impoverendo il nostro tessuto produttivo e sociale. Tutto bene, allora? Certamente no. C’è molto da fare per snellire le strutture non operative, tagliare le spese impropriamente addossate alla difesa, proteggere l’efficacia dello strumento militare da quanti lo vedono come bacino di consenso o mercato garantito, tagliare atteggiamenti faraonici o comportamenti irriguardosi. Ma un conto sono le battute, un altro capire come raggiungere l’obiettivo di una proporzione 50-25-25 tra personale, esercizio e investimento. Tra chi lo sa benissimo c’è Itzhak Yoram Gutgeld, il deputato Pd che si dice sia il tuo principale consigliere economico – forse perché, essendo israeliano di nascita, ha respirato fin da piccolo quella cultura della sicurezza e della difesa che in Italia manca. Purtroppo. In bocca al lupo per l’8 dicembre.
P.S. Mentre scrivo un C-130J dell’Aeronautica militare è in volo per portare nelle Filippine i moduli della Protezione civile. Anche questa è Difesa.