È partita ieri, a tutta birra, la ministeriale Difesa della Nato, a cui partecipa anche Elisabetta Trenta. Martedì, il vertice è stato anticipato dalla minaccia statunitense di contromisure rispetto al programma missilistico russo. Mercoledì, nuovi segnali di sfida al Cremlino sono arrivati dal segretario generale dell’Alleanza Jens Stoltenberg. Al ministro della Difesa italiano spetta l’arduo compito di ribadire la necessità di rivolgere attenzione anche al fianco sud e alle minacce che imperversano nel Mediterraneo, un’esigenza su cui l’Italia sta da tempo richiamando all’ordine gli alleati e su cui potrebbe trovare sponda proprio negli Stati Uniti, come certificato dal bilaterale che la Trenta ha avuto ieri con il capo del Pentagono James Mattis.
LA QUESTIONE DEL BURDEN SHARING
Comunque, al primo posto dell’agenda c’è stato, ancora una volta, il tema del burden sharing, ovvero l’impegno a spendere (entro il 2024) il 2% del Pil nella Difesa. A luglio, il tema fece discutere Donald Trump con i colleghi del Vecchio continente, gettando sul summit un clamore che riuscì a oscurare rilevanti decisioni strategiche e operative. Ad ogni modo, “negli ultimi due anni gli alleati europei e il Canada hanno speso nel complesso 41 miliardi di dollari in più”, ha detto Stoltenberg aprendo i lavori e cercando di evitare nuovi discussioni sul tema. Certo, ha aggiunto, resta “il senso di urgenza di investire il 2% del Pil in difesa e di avere piani nazionali credibili per arrivarci”. L’invito riguarda anche il nostro Paese, che spende circa l’1,15% del proprio Pil nel settore.
LE DECISIONI OPERATIVE
Sul tavolo dell’incontro tra i ministri della Difesa ci sono poi i passi da compiere per mettere in atto le novità introdotte proprie dall’ultimo vertice dei capi di Stato e di governo. Tra queste, la nuova struttura di comando, che si doterà di ulteriori 1.200 unità e di due nuovi comandi con competenza su due nuovi comandi dedicati all’Atlantico (a Norfolk, in Virginia) e alla mobilità militare (a Ulm, in Germania). In arrivo anche una maggiore definizione della “Readiness initiative”: avere a disposizione, entro il 2020, 30 battaglioni meccanizzati, 30 gruppi aerei e 30 navi da guerra in grado di essere operativi in 30 giorni.
I MESSAGGI A MOSCA
Tutto questo rientra nel “focus” annunciato da Stoltenberg su “deterrenza e difesa”, una proiezione che continua a vedere nella Russia il suo primo destinatario. In tal senso, si attende anche un meeting del Nuclear Planning Group, finalizzato “a mantenere il deterrente nucleare della Nato sicuro ed efficace”. Il segretario generale ha poi annunciato che i ministri parleranno anche delle preoccupazioni riguardanti “le violazioni della Russia al trattato Inf”. Quest’ultimo aspetto fa l’eco alle accuse mosse martedì scorso dalla rappresentante permanente degli Usa Kay Bailey Hutchison, che ha addirittura minacciato contromisure (fino all’eliminazione dei missili russi) nel caso in cui Mosca non interrompa lo sviluppo di armamenti a raggio intermedio capaci di portare testate nucleari. Le rimostranze riguardano il trattato siglato nel 1987 da Stati Uniti e Unione Sovietica, che proibisce esplicitamente il dispiegamento a terra di missili con un raggio fra 500 e 5.500 chilometri. La logica delle accuse e contro-accuse con Mosca va avanti da ormai un paio d’anni (qui un approfondimento sul tema), con Washington che cerca di coinvolgere (riuscendoci) anche la Nato sull’argomento, nonostante l’Inf sia un trattato bilaterale. Ciò dimostra che la Russia resta in cima alle priorità dell’Alleanza.
IL FRONTE SUD…
Eppure, ci ha spiegato il generale Leonardo Tricarico, presidente della Fondazione Icsa e già capo di Stato maggiore dell’Aeronautica, “è ora che questa sistematica e insistente politica di mettere a punto un’avversità organizzata verso Mosca e di mantenere ben robusto l’asse est-ovest della Nato, senza curarsi delle vere direttrici della minaccia, sia oggetto di una più attenta riflessione”. Il rischio è di dimenticarsi delle preoccupazioni degli alleati meridionali. E infatti è finita in fondo all’agenda del vertice di Bruxelles “la risposta all’instabilità nel fronte sud”. Su questo, l’Italia è da tempo a lavoro per portarla in cima alle priorità dell’Alleanza, un compito che il ministro Trenta ha da subito assunto con decisione, già nella ministeriale di fine maggio, quella che fu un battesimo del fuoco a pochi giorni dall’insediamento del governo.
LA SPONDA AMERICANA
Eppure, una sponda per l’Italia potrebbe arrivare proprio dagli Stati Uniti. Nel corso della prima giornata di ministeriale, il ministro Trenta ha tenuto un bilaterale con il capo del Pentagono James Mattis. Tra i temi sul tavolo soprattutto la Libia, su cui il nostro Paese ha già incassato il riconoscimento della leadership da parte degli Usa nell’incontro di fine luglio, a Washington, tra Trump e Conte. Poi, le missioni internazionali, con l’Afghanistan in testa. L’Italia partecipa all’operazione Resolute Support della Nato con 900 soldati, per cui tuttavia potrebbe arrivare presto una riduzione di cento unità. Rispetto all’incertezza che aleggiava sul tema all’inizio del mandato del nuovo governo italiano, l’esecutivo giallo-verde ha progressivamente rassicurato l’alleato americano. Ogni riduzione sarà progressiva e concertata con i partner. Probabile che proprio di questo abbiamo parlato Trenta e Mattis. Tra l’altro, per l’Iraq (altro Paese su cui l’Italia sta valutando una riduzione del proprio contingente) la Nato sta procedendo nella definizione della nuova missione training, che “includerà più di 500 unità e aiuterà il Paese a preservare quanto conquistato dalla coalizione globale anti-Daesh”, ha spiegato Stoltenberg.
… E LA COLLABORAZIONE CON L’UE
Oggi, il vertice prevede un incontro con l’Alto rappresentante Federica Mogherini, da cui gli alleati attendono le novità in tema di Difesa europea. Lo scorso giugno, da Bruxelles è arrivata la proposta di un Fondo ad hoc da 13 miliardi di euro per il periodo 2021-2027, con la fase iniziale che è già partita attraverso l’Azione preparatoria per la ricerca e il Programma di sviluppo industriale. Tutto questo, come ribadito sin dalla presentazione della Global Strategy dell’Ue nel 2016, dovrà procedere in complementarietà con la Nato. Non caso, proprio la collaborazione tra le due organizzazioni è stata considerata dalla Mogherini come un pilastro della Difesa comune europea, concetto inevitabile per convincere i Paesi membri più restii (soprattutto quelli dell’est) a sostenere un progetto che potrebbe apparire duplicativo rispetto all’Alleanza Atlantica. Tutto questo è ribadito nella due-giorni di Bruxelles, e lo ha ricordato anche Stoltenberg: “Fatti nel giusto modo, gli sforzi dell’Ue possono contribuire a un più equo burden sharing tra Europa e Nord America”.
IL NODO MACEDONE
Circa la cosiddetta “open door policy” (espressione con cui si intende l’allargamento della membership, soprattutto verso i Balcani) pesa ancora il recente risultato del referendum in Macedonia sul cambio del nome. Il mancato raggiungimento del quorum complica, infatti, il processo di adesione di Skopje all’Alleanza, vincolato al veto posto dalla Grecia. Tanto nella Nato, quanto nell’Unione europea, Atene non è disposta ad accettare un nuovo “alleato” o “membro” che sia omonimo di una sua regione, questione legata a una storica diatriba di carattere politico, culturale ed etnico. La Nato comunque non molla. Nel recente comunicato, scritto a quattro mani con il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk, Stoltenberg ha invitato i politici macedoni “a decidere sulla strada da intraprendere”, invitandoli a cogliere “l’incredibile opportunità” emersa dall’accordo di quest’estate con la Grecia.