La strategia di Trump tra Siria e Afghanistan spiegata da Castellaneta

Di michele

Il ritiro dalla Siria e la riduzione del contingente in Afghanistan non sono il frutto di uno sbalzo d’umore di Donald Trump. Rispondono piuttosto a una strategia razionale che, nel solco già tracciato dall’amministrazione Obama, contiene un invito (“indiretto ma chiaro”) agli alleati europei affinché si assumano maggiori responsabilità. Parola di Giovanni Castellaneta, attuale segretario generale dell’Iniziativa adriatico-ionica (Iai), presidente di doBank, con alle spalle una lunga carriera diplomatica che lo ha visto anche ambasciatore d’Italia in Iran (1992-1995) e negli Stati Uniti (2005-2009). Formiche.net lo ha sentito per commentare gli ultimi sviluppi nella Difesa americana, che ieri ha visto l’annuncio del ritiro del capo del Pentagono James Mattis. Ad aumentare le distanze con il presidente Trump è stata la decisione di procedere con il ritiro dei duemila soldati americani impegnati in Siria, a cui oggi si è aggiunta la notizia di un piano per far rientrare buona parte del contingente in Afghanistan. Attenzione però a non confondersi, iniziando ad auspicare un ripiegamento delle nostre forze (come già fatto da Alessandro Di Battista). Trump ci sta probabilmente chiedendo l’esatto contrario.

Ambasciatore, con l’annunciato piano di ritiro dalla Siria e le notizie relative al cospicuo ridimensionamento della presenza in Afghanistan, gli Stati Uniti si stanno dirigendo verso un neo isolazionismo?

Direi di no. È solo una diversa visione della sicurezza nazionale, nel solco già tracciato dall’ex presidente Obama. Si tratta di una propensione maggiore all’interno delle frontiere, riducendo il numero degli uomini sul campo e rafforzando gli armamenti di difesa area e protezione dei confini. Non vuol dire che gli Stati Uniti saranno meno vigili, ma piuttosto che adotteranno una visione che lo stesso Obama aveva definito “behind”, e no “forward”.

Significa che gli Usa rinuncia definitivamente a essere “poliziotti del mondo”?

Significa che lo fanno in maniera diversa, non solo mandando in territori lontani i propri soldati, con gli alti costi e le importanti ricadute elettorali che ciò comporta. Hanno sempre negato di voler essere “poliziotti del mondo”, e ora rafforzano l’idea di sicurezza nazionale, che certo può essere allargata al sostegno a quei Paesi che condividono le stesse basi civili. Ne è un esempio la Nato, e dunque il supporto e la vicinanza ai Paesi dell’Alleanza.

Come considera il passo indietro di James Mattis, segretario alla Difesa, tra l’altro considerato uno dei “normalizzatori” dell’amministrazione?

Mi sembra importante sottolineare che il suo ritiro avverrà a febbraio. Non uscirà all’improvviso sbattendo la porta. D’altronde, una simile decisione era inevitabile: se non sei d’accordo con la visione del tuo governo, o vai via, o subisci; non ci sono alternative. Tra l’altro, i militari americani hanno da sempre il culto della programmazione, di prepararsi in anticipo a importanti cambiamenti. Ciò è diverso dallo stile di governo di Trump, che spesso decide con un semplice tweet. In più, immagino che per il comparto militare ci sia anche il timore che le riduzioni sul campo si traducano in un ridimensionamento del budget e del personale previsti per le missioni, ponendo l’accento su altri tipi di assetti, come sistemi missilistici, radar ed elettronica, un qualcosa che, nel complesso, ai militari piace di meno.

L’amministrazione perde comunque un pezzo importante.

Certo. È una cosa seria l’uscita di un generale dall’amministrazione, anche perché non è il primo. Prima di lui sono andati via Michael Flynn e H. R. McMaster (primo e secondo consigliere per la sicurezza nazionale, ndr), e da ultimo il capo di gabinetto John Kelly. Pur avendo studiato presso scuole militari, Trump ha poi fatto una carriera completamente diversa, e probabilmente fatica a rendersi conto delle reazioni di soldati abituati a linee gerarchiche, a pianificazioni chiare e a dare sostegno alla presenza della Forze armate sul campo. Anche questo è però un trend ormai solido. Gli americani hanno già ridotto la presenza in Iraq, e ora passano all’Afghanistan. Per quanto riguarda la Siria, il ritiro di duemila soldati non è rilevantissimo da un punto di vista numerico, ma certamente segnala una strategia diversa che i generali possono non condividere. Ciò non significa che gli Stati Uniti intendano abbandonare il ruolo acquisito, ma piuttosto che vogliono condurlo in maniera diversa.

Il ritiro dalla Siria è da considerare anche nell’ottica di un riavvicinamento alla Turchia, che avrebbe campo libero sui curdi?

Non so se la decisione sia legata a questo aspetto. È chiaro che la Turchia, in quanto Paese della Nato, non può avere tensioni costanti e così rilevanti con un altro membro dell’Alleanza. Tra l’altro, immagino che la popolazione curda possa essere aiutata anche in modo diverso rispetto alla presenza di duemila tra assistenti, specialisti e advisor. È anche questo un trend che va avanti da tempo; persino la Libia è da intendere in questo senso. Indirettamente, gli Stati Uniti chiedono che l’impegno degli alleati sia più concreto. D’altra parte diversi Stati europei hanno sempre detto, giustamente, che considerano la zona mediorientale come il giardino di casa.

E per quanto riguarda l’Iran? Un ridimensionamento della presenza Usa in Medio Oriente non contrasta con la linea dura adottata dall’amministrazione Trump su Teheran?

Lo stesso si potrebbe dire effettivamente della Russia. Personalmente, credo che Trump pensi di poter contenere Mosca e Teheran con misure economiche e pressioni non puramente militari. L’Iran è presente in Siria con tradizionali legami religiosi e politici; la Russia ha una presenza ormai stabile e corposa. Probabilmente, il presidente americano ritiene che un confronto militare a così grande distanza da casa con questi Paesi potrebbe creare difficoltà. Così, lascia il campo militare, ma si attrezza per contrastarli in maniera diversa, contando ad esempio su Paesi amici degli Usa che condividono lo stesso interesse. È una strategia diversa, forse molto più complessa rispetto al semplice impegno militare, e sicuramente da non ridurre al solo ritiro di duemila soldati. È sulle ragioni di fondo che Mattis ha deciso di ritirarsi. Non sono sbalzi d’umore del presidente, ma il frutto di una filosofia e di un approccio razionali.

Tale strategia chiama dunque gli alleati a una maggiore assunzione di responsabilità?

È esattamente questo. Gli Stati Uniti stanno dicendo che non vogliono giocare il ruolo di “poliziotto del mondo” e che non hanno intenzione di pagare la gran parte “della polizia”. Ciò rappresenta un invito ai vari alleati, ciascuno nei territori in cui sono maggiormente coinvolti. Un invito indiretto ma chiaro a partecipare alla difesa di interessi comuni.

Ciò riguarda anche l’Unione europea?

Non credo che Trump riponga molte speranze nell’Ue. Più che altro guarda ai membri della Nato e ai singoli Paesi alleati. L’Unione europea non si è ancora dotata di una capacità militare, che tra l’altro nessuno da parte americana vorrebbe alternativa alla Nato. Al contrario, da oltreoceano hanno sempre detto che la difesa europea debba essere a sostegno della capacità dell’Alleanza Atlantica. In tal senso, la questione del ritiro dalla Siria manifesta la richiesta di maggior integrazione con la Nato, in cui può essere reintrodotto anche il discorso della Turchia. L’invito Usa è rivolto all’Alleanza e ai singoli Paesi europei con l’ambizione e la volontà di occuparsi di più della questione mediorientale.

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