Le accuse formali di Washington sull’interferenza del governo russo durante le ultime elezioni presidenziali americane hanno tenuto alta l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale sin dal settembre dello scorso anno e a tutt’oggi rappresentano ancora uno degli argomenti più dibattuti e soprattutto capaci di generare vedute divergenti. Come se ciò non bastasse, le recentissime dichiarazioni pubblicate dal Washington Post hanno aggiunto a questa vicenda un tassello molto interessante. Si è appreso infatti che, grazie all’attività della Cia e dei loro informatori all’interno degli alti livelli dell’establishment del Cremlino, Obama era a conoscenza, sin dall’agosto del 2016, non solo dei piani del governo russo tesi a influenzare la campagna elettorale americana, ma anche del coinvolgimento diretto di Vladimir Putin e del suo specifico ordine di porre in essere ogni attività utile a screditare la candidata Hillary Clinton e a favorire il suo avversario politico Donald Trump.
La replica a questa notizia da parte di Obama – in quel periodo ormai agli sgoccioli del suo mandato – arrivò sul finire dell’anno e si concretizzò nell’espulsione di 35 diplomatici russi, nella chiusura di due compound e nell’imposizione di alcune modeste sanzioni economiche. Secondo il Washington Post, però, Obama avrebbe anche pianificato un’operazione cibernetica volta a infettare i sistemi informatici di alcune infrastrutture critiche russe come reazione in caso di ulteriori tentativi di sabotaggio delle elezioni da parte del Cremlino. Peraltro, il reale obiettivo di questo attacco non sarebbe dovuto essere quello di creare dei significativi malfunzionamenti su quei sistemi informatici critici, ma soltanto di lanciare un chiaro segnale, a puro scopo dimostrativo, delle reali capacità americane nel e attraverso il cyber-spazio. Onde evitare una sicura escalation con Mosca alla vigilia delle elezioni, Obama scelse di lasciare la decisione se dar corso o meno a questo attacco cibernetico al suo successore e l’evoluzione di questa vicenda è ormai “storia contemporanea”.
Tuttavia, oltre alla narrazione di queste recentissime rivelazioni, appare di sicuro interesse analizzare soprattutto la strategia di reazione a questa minaccia predisposta dal governo americano. Se da un lato, infatti, si è deciso di optare per una ritorsione particolarmente “visibile” e simbolica attraverso alcune contromisure classiche di autotutela in caso di illecito internazionale, come l’applicazione di sanzioni e l’espulsione dei diplomatici, dall’altro si è pianificata anche un’operazione cibernetica “coperta” a basso livello di danno (creare minimi malfunzionamenti), ma ad alto impatto psicologico (attaccare le infrastrutture critiche russe). L’obiettivo da raggiungere con questo attacco avrebbe dovuto essere sia quello di far comprendere con chiarezza il messaggio intimidatorio al governo russo, sia contestualmente quello di evitare o quantomeno contenere il più possibile un eventuale coinvolgimento dell’opinione pubblica americana e internazionale da parte del Cremlino, che per reagire avrebbe dovuto ammettere pubblicamente di aver subìto un attacco cibernetico alle proprie infrastrutture critiche nazionali.
In conclusione, nonostante nei fatti non sia stata poi attuata, la strategia di Washington appare sicuramente efficace e soprattutto ben bilanciata rispetto alle specifiche esigenze del momento. Peraltro, da un’analisi complessiva della postura americana, si può evincere come gli Stati Uniti abbiano fatto evolvere il loro modello di approccio alla deterrenza nel e attraverso il cyber-spazio verso una combinazione tra robuste e resilienti capacità di difesa cibernetica ed efficaci capacità di condurre operazioni offensive attentamente calibrate negli effetti. Un approccio, questo, sicuramente interessante e che nel tempo sarà sempre più utilizzato non solo nelle relazioni con il governo russo, ma anche nei confronti di tutti gli altri principali attori internazionali percepiti da Washington come una minaccia.